Tra sciamanesimo e nostalgia nel ricordo dell’Arcimatto
Letteratura dello Sport
La riproposta su “Libero” di un articolo dedicato al più grande giornalista di tutti i tempi precede l’uscita del libro di saggi sul trentennale breriano in uscita a giorni nella collana del Panathlon e del Coni “La coda del drago” (Edizioni ZeroTre)
di Adalberto Scemma – Redazione Panathlon G.Brera UniVr Area1 Veneto Trentino/AA
Vittorio Feltri è da sempre (a tratti persino suo malgrado) uno straordinario esemplare di “animale da giornale”. Se proprio devo sceglierne uno, tra le tante espressioni della fauna, mi viene da indicare un cane. Un cane da trifola, un segugio. Con un distinguo a rapidissimo innesco: a differenza del segugio, che per sua natura “segue”, lui, Vittorio, “precede”. Precede sempre. Sa captare in anticipo, come un’antico sciamano tolteco, il senso degli avvenimenti che stanno di lì a poco per accadere. Ne decripta l’importanza, ne cattura una sorta di impalpabile battito sensuale, poi si affida a certe sue umbratili-festose armonie (passatemi l’ossimoro ciclotimico) per dettare i tempi della notizia. Sempre in anticipo su tutti. Lo ha fatto anche stavolta con la doppia pagina di “Libero” che vi propongo qui in visione (e in lettura) uscita in edicola sabato 5 novembre.
Domanda posta al clito e soprattutto all’inclita: perché ad aprire (ma anche a chiudere, data la dimensione) lo spazio della rubrica “Libero Pensiero” Vittorio Feltri ha scelto di ri-pubblicare l’articolo, ormai un classico, uscito tre anni fa in occasione del centenario della nascita di Gianni Brera? Domanda pleonastica con risposta incorporata: perché è un cane, un supercane da trifola, un “animale da giornale”. Perché sa che tra un mese, lunedì 19 dicembre, cadrà il trentennale della scomparsa di Gioânn l’Arcimatto, evento questo che riempirà pagine e pagine di tutti i giornali e che troverà enfasi adeguata sui media di ogni target, da quello culturalmente più evoluto a quello generalista. E lui, Vittorio, celebrando Brera, ha giocato ancora una volta in anticipo.
Devo confessare (percezione sciamanica che spesso mi fa provvidenziale, elettrica compagnia sulla spalla sinistra) che la scelta di Vittorio Feltri di raccontare con tale fragore cronistico un personaggio unico e irripetibile come Gianni Brera non solo mi commuove per antichi afflati amicali, ma al tempo stesso mi incoraggia a dare sostanza a certe mie prese di posizione forse eccessivamente ruvide (parlo dei linguaggi della letteratura sportiva ma anche dell’evoluzione della lingua italiana in genere, che dopo Brera ha sterzato di colpo senza più conoscere sollecitazioni così improvvise, entrate così violente). Di certo Brera ha sortito un effetto valanga, ha divelto, cancellato, innovato, al punto che dopo di lui la storia della lingua (alla faccia dei Soloni e dei culidipietra della critica) dovrà essere inesorabilmente ridisegnata. Ed è già un bel colpo di fortuna il fatto che ci si possa confrontare oggi con elevati spiriti (parlo di Gilberto Lonardi, Franco Contorbia, Massimo Raffaeli…) per verificare l’attendibilità di una provocazione che appare ormai improrogabile: Brera era talmente avanti, sia nel linguaggio che in tutto il resto, da aver ucciso il giornalismo. E non solo quello sportivo.
Vittorio Feltri ha subito colto l’essenza del dibattito che l’occasione del trentennale andrà a suscitare. Perché se è vero che Gianni Brera rimarrà storicamente una pietra miliare del giornalismo (“Il migliore in assoluto – scrive Feltri – lo metto a pari merito con Indro soltanto per rispetto, io preferisco Gianni. Eguagliarlo è impossibile, tanto era massiccio, ricco e appassionato”) è altrettanto vero che l’evoluzione della stampa scritta e dell’informazione in genere delinea un panorama che prevede ormai un’integrazione, anzi, una contaminazione sempre più serrata tra physical e digital. Siamo alla penultima frontiera della comunicazione, perché ci sarà sempre una tappa in più, una tappa successiva.
La pandemia ci ha messo del suo, ha accelerato un processo che appare irreversibile, ha aperto un territorio nuovo di cui stiamo scoprendo ora quasi in diretta, giorno per giorno, le potenzialità: parlo dell’aspetto interattivo con l’obiettivo di creare un sistema integrato in cui è prevista la convivenza tra mondo fisico e mondo digitale. Ciò che mi lascia però perplesso, in questo cambiamento radicale, è la tendenza a non far percepire un confine netto tra le due dimensioni: si tende cioè a trasformare il destinatario dell’informazione in un robot, in un soggetto quasi esclusivamente passivo. Ed è proprio questo l’errore che gli esperti della comunicazione (tutti piuttosto blindati, su tali tematiche) dovrebbero evitare. Prima di tutto perché non esistono soggetti passivi, l’uomo è un soggetto pensante, è un individuo; in secondo luogo perché se si procede su un unico binario di comunicazione, si finirebbe per perdere di vista l’unica chiave che apre qualsiasi porta: la creatività.
Dal giornalismo dei reporter, sguinzagliati a caccia di notizie, si è passati a un giornalismo invaso, per contrapposizione, dalle notizie. Di qui il processo inverso: non più la ricerca delle notizie come esigenza primaria ma la loro cernita. Il risultato è quello di un giornalismo scritto sempre più compresso, quasi schiacciato da tv, internet, social e così via, al punto da far dire ai nostalgici di un’epoca peraltro irripetibile che questa è la generazione dei “Senzabrera & Senzamura”. Un pedaggio obbligato a una comunicazione che tende ormai alla sintesi, con tutte le estremizzazioni del caso, e a una tecnica che non rende più strettamente necessaria la presenza in loco del giornalista.
Anche il rapporto umano che si crea tra il giornalista inviato e i personaggi dello sport viene in un certo senso snaturato. Il contatto personale è ridotto all’essenza dall’uso smodato delle conferenze stampa, quasi sempre (anzi: sempre!) pilotate nelle domande se non addirittura superate dai comunicati ufficiali. È l’”altra faccia della luna”, in linea peraltro con ciò che caratterizza l’intero mondo della comunicazione.
Tutte vicende, quelle che manifesto o che ipotizzo, destinate proprio grazie alla celebrazione del trentennale di Brera, a offrire al dibattito nuova linfa in un momento di stagnazione pressoché totale. Ho chiesto qualche mese fa ai ragazzi del corso di letteratura sportiva che tengo all’Università di Verona (Scienze motorie) se conoscevano, in rapida successione, Brera-Arpino-Mura-Buzzati-Saba-Sereni-Bianciardi e il blackout è stato assoluto (sic!). Ripeto: assoluto. Si era in Aula Magna, tutte le lezioni sono state registrate. Ho chiesto allora di riferirmi almeno il nome di un giornalista sportivo attuale e soltanto tre ragazzi si sono lambiccati a lungo la capoccia prima di esprimere due preferenze per Luigi Garlando (uno bravo, per fortuna!). Il terzo votato? Da non crederci: l’avvocato Eugenio Ghiozzi. Al secolo Gene Gnocchi!
Situazioni come questa hanno suggerito al gruppo storico dei giornalisti e degli scrittori di sport ormai gratificati del nome di “Senzabrera & Senzamura”, di utilizzare proprio l’evento del trentennale per fare di Brera il perno di un dibattito molto articolato. Un dibattito che consenta quantomeno ai giovani e ai meno giovani dell’ultima generazione (diciamo dai quarantenni in giù, e non siamo lontani dal vero) di prendere nota a memoria futura, della presenza poderosa e debordante di un “Principe della Zolla” chiamato Gianni Brera. “Chiedi chi erano i Beatles”, cantano Dalla &Morandi con gli Stadio di Gaetano Curreri in punta di nostalgia. Ci sarà qualcuno che più in là nel tempo, molto più in là del tempo, avrà la curiosità di chiedere chi era Gianni Brera?
Era prevista per quest’anno l’uscita del sesto volume dei “Quaderni dell’Arcimatto”, il libro-rivista che dirigo insieme con Alberto Brambilla (Edizioni Fuorionda) ma per scelta unanime si è deciso di rimandarne al 2023 la pubblicazione lavorando invece a un’edizione speciale in occasione del trentennale di Brera. Il volume, “Per Gianni Brera l’Arcimatto”, uscirà entro la fine di novembre nella medesima collana di letteratura sportiva (“La coda del drago”, Edizioni ZeroTre) che già ha ospitato il libro di saggi e di testimonianze “Per Gianni Mura”. Un accostamento certo non casuale, data la storia esemplare che li ha uniti quasi in assemblaggio e che prevede un’ulteriore nota di straordinaria energia creativa: l’uscita in contemporanea di un libro di poesie ispirate allo sport (“La musa prigioniera”) firmato da Gilberto Lonardi, un fuoriclasse della critica letteraria, principale esegeta con Franco Contorbia, che ne cura la prefazione, sia dell’opera di Brera che di quella di Mura.
A realizzare “Per Gianni Brera l’Arcimatto” (prevista una pioggia di presentazioni a largo raggio a partire da dicembre) hanno contribuito oltre ad Alberto Brambilla e al sottoscritto, che ne sono i curatori, anche firme storiche del giornalismo e della letteratura sportiva. Ecco in rigoroso ordine alfabetico gli autori degli interventi, compresi quelli inseriti nella sezione dei florilegi: Ferdinando Albertazzi, Mino Allione, Andrea Aloi, Alberto Brambilla, Vladimiro Caminiti, Massimiliano Castellani, Sebastiano Catte, Paola Colaprisco, Piero Faltoni, Vittorio Feltri, Mariella Gini, Sergio Giuntini, Gilberto Lonardi, Lorenzo Longhi, Andrea Maietti, Beppe Maseri, Gianni Mura, Gianluca Oddenino, Darwin Pastorin, Salvatore Piconese, Raffaele Pompili, Massimo Raffaeli, Claudio Rinaldi, Adalberto Scemma, Mario Sconcerti, Mario Sicolo, Giuseppe Smorto, Gianni Spinelli, Luca Urgu, Furio Zara.
Capite bene, a questo punto, che l’uscita anticipata (ma non a sorpresa, dato il personaggio) dell’articolo di Vittorio Feltri fornisce a “Per Gianni Brera l’Arcimatto” una base d’attenzione non solo beneaugurante ma addirittura in ode di sciamanesimo tolteco, ça va sans dire. Sì, perché accanto agli interventi inediti delle grandi firme di oggi, figura tra gli pezzi scelti per il cosiddetto “florilegio breriano” (a insaputa di Vittorio) proprio “Il fondo della bottiglia”, l’articolo che “Libero” ha presentato con qualche minima variazione nell’edizione di sabato 5.
Per dovere cronistico (il libro è già in stampa, quindi intangibile) non ho mancato di accompagnare “Il fondo della bottiglia” con una nota a margine in punta d’ironia per rilevare due imperfezioni mnemoniche evidentemente sfuggite a Vittorio Sgarbi:
“Si può scrivere di Brera in tanti modi: per imitazione, per osmosi, per proliferazione verbale. Persino per il piacere di inerpicarsi lungo la salita degli endecasillabi tronchi. Oppure, come più d’uno ha cercato di fare, per smontarne spudoratamente ogni presupposto tecnico o letterario. Mai con distacco tuttavia, ma con accorata partecipazione, va da sé. Un tipo come Vittorio Feltri, invece, poteva scrivere di Brera in un modo soltanto, quello a lui più congeniale: “alla Feltri”. Utilizzando quello che proprio Brera avrebbe definito lo stile del raccontista, di chi ti inchioda cioè alla lettura, dalla prima all’ultima riga, senza soluzione di continuità.
Il ricordo personale di Brera che qui proponiamo è uscito su Libero l’8 settembre del 2019, il giorno in cui Gianni avrebbe compiuto cent’anni. Solo due irrisorie imperfezioni mnemoniche che i soliti gufi in S.P.E. (Servizio permanente effettivo) si sono precipitati sui social a imputare a Feltri: Giancarlo Antognoni non era l’’”abatone”, per Brera, ma il ben più irriverente “ebetino”, epiteto suggerito da una accentuata imperturbabilità-fissità dello sguardo del campione della Fiorentina durante le interviste televisive (l’”abatone” breriano era in realtà il portoghese Eusebio, fuoriclasse dal monacale sussiego); la celebre macchina da scrivere di Brera non era una Olivetti Lettera 62 rossa, come certifica Feltri, bensì una Olivetti Lettera 22 verdolina. Dettagli, dettagli. Qualora gliel’avessero fatto notare Gioânnbrerafucarlo avrebbe invitato il desso a procedere al mercimonio delle proprie commendevoli chiappe. O in subordine, con un’ipotesi ancora più surreale, ad andare a scopare il solito mare. Prosit”.
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