Di Guido Barlozzetti
La vita e la carriera di un uomo racchiuse nella voce che strozzata dalla passione celebra una medaglia d’oro olimpica. E’ curioso e per certi versi tremendo e paradossale il contrappasso che la società dei media riserva ai suoi protagonisti, in questo caso a Giampiero Galeazzi morto ieri all’età di 75 anni e per sempre assunto nell’Empireo dei cantori dello sport.
A ogni epoca il suo grido, quello di dolore di Vittorio Emanuele II, il “vincere!” strozzato che esplode su Piazza Venezia, a noi nel tempo della tv un galvanizzante grido-nike, comunitario e trasversale, che ci unifica e fa battere il cuore fin sulla soglia dell’infarto per un alloro sportivo.
Quelle telecronache sono il lascito indelebile di Galeazzi, a Seul nel 1988 per il trionfo dei fratelli Abbagnale nel due con (Peppiniello Di Capua) e a Sidney nel 2000 per la vittoria di Bonomi e Rossi nel K2 mille metri. È stato assunto così, con il live di quest’urlo soffocato e protratto fin quasi allo sfinimento, nella memoria collettiva catodica che, come una scultura classica, ferma i suoi eroi in una performance a futura memoria. Un balletto dadaumpa, una canzone Da una lacrima sul viso, una gag, la domanda in un quiz, una camminata sui carboni ardenti come il primo piede sulla superficie della Luna.
Resta di lui quell’accompagnamento gridato da un tifo che diventa metafora della vita stessa, perché ha contribuito alla costruzione di miti dello sport e perché il racconto di quell’epopea ha mosso emozioni e partecipazioni così intense da portare nel mito anche il narratore. E Giampiero Galeazzi, al di là delle memorabili punte adrenaliche, questo ha fatto, ha raccontato lo sport alla radio, prima, e poi in televisione, meglio ancora, gli sport che amava perché facevano parte della sua vita. Il tennis, il calcio e soprattutto il canottaggio che poco più che ventenne l’aveva visto campione italiano nel singolo e, con Giuliano Spingardi nel doppio. Un canottiere, lo ribadiva lui stesso, che veniva prima del giornalista e dell’uomo di spettacolo, anche quando si occupava di tennis o aspettava a bordo campo o nello spogliatoio Maradona.
Senza questa radice Galeazzi non sarebbe diventato quella voce. Nella quale, al tempo stesso, c’erano l’entusiasmo estroso e la capacità di immedesimarsi in un’impresa con un’intensità che rendeva conto anche di un percorso in cui il telecronista era diventato un protagonista dell’intrattenimento, a nulla negandosi, portando a Domenica in il double face del conduttore di Novantesimo minuto, da un lato, e la parodia dei Blues Brothers insieme con Giucas Casella, dall’altro.
Storcevano il naso i puristi del giornalismo, incapaci di cogliere la perversione esibizionista che il piccolo schermo può accendere e portare all’estremo, perché il pubblico, si dice a giustificazione, questo vuole, eccessi, trasfigurazioni che infrangano galatei e coerenze e mollino il freno della buona condotta.
Galeazzi l’ha fatto, ma non certo sulla tangente di una trasgressione, piuttosto con la bonomia pacioccona di una certa romanità, sostenuta dalla mole imponente del corpo, e sancita dal soprannome che gli aveva appiffiato uno storico dirigente dello sport Rai, Gilberto Evangelisti, nell’epoca degli Ameri e dei Ciotti, quando se l’era visto comparire davanti. Bisteccone, un titolo-sintesi che diceva di un’abbondanza generosa, di una propensione gaudente alla vita e alla tavola, e di una simpatia complice e battutara che fra i sette colli sul Tevere ha per tradizione antica trovato un’atmosfera congeniale.
Non era un tradimento della professione, una caduta nel ridicolo che ne pregiudicava l’autorevolezza, la televisione – quella generalista che deve essere buona per tutti – non sa che farsene di spiriti esangui, ancorché sapienti e all’apparenza irreprensibili, vuole mostri e li divora senza posa, insaziabile come Lucifero che nel profondo più profondo della Giudecca infernale continua a masticare Giuda, Bruto e Cassio.
Galeazzi seguendo il suo demone sportivo ed estroverso ha assecondato quello della tv e ha consegnato se stesso a quel dominus indifferente che non smette di produrre e consumare immagini. Adesso, lo riascoltiamo, “Si guarda a destra, si guarda a sinistra, vince l’Italia”, … “La prua italiana è la prima a vincere”… e la sua voce ritorna presa nell’agonismo con se stessa, nello sforzo estenuante di arrivare anch’essa al traguardo e di replicare in simultanea nell’etere la vittoria un canottiere o un tennista.
Salutiamo grati un altro campione dell’amicizia televisiva, Giampiero Galeazzi se n’è andato, mentre il bulimico teledemonio officia la cerimonia e prepara la prossima.
Ringraziamo l’autore, Guido Barlozzetti, per la cortese autorizzazione a pubblicare l’articolo