Qui Verona – Alessandra Rutili – Area 1
E’ il calcio bellezza
Potrebbe essere questo lo slogan utilizzato per la presentazione della Super Lega
E’ il calcio bellezza sottende al fatto che questo sport è diventato in Italia, come in Europa, un business. Lo abbiamo capito da tempo. Basti pensare che alcune società sono quotate in borsa. Non solo, le sponsorizzazioni, le finali disputate in luoghi che nulla hanno a che fare con le squadre partecipanti o alle lotte per i diritti televisivi. Persino l’arrivo di un giocatore è fonte di guadagno, di marketing. Non mi sono meravigliata quindi che si sia pensato ad una super lega, fatta dai ricchi per i ricchi. Che poi, tanto ricchi non sono. Non mi ha stupito che si voglia creare un campionato delle grandi perché ormai non credo più alle favore. Non credo a chi vuole farci intendere che vi siano imprenditori illuminati che per amore dello sport o della città investono soldi per il valore sociale del calcio. E ritengo che lo scudetto di Bagnoli o le promozioni del Chievo siano solo un ricordo lontano. Mi ha stupito e un po’ indignato la reazione di qualche addetto ai lavori che solo oggi si schiera a difesa dei valori dello sport e dei tifosi. Ma come? i tifosi per seguire la propria squadra del cuore deve pagare a diverse Pay TV un sacco di soldi sì o no? Ma come, non si giocherà a calcio in uno dei Paesi Arabi più retrogradi in fatto di diritti umani? Eppure va tutto bene. Si è detto che il calcio non sarà più popolare, come se ora lo fosse. Sponsor, media e Tv decidono il dove, il quando, il come. Hanno spezzettato il campionato per motivi economici e ci stupiamo che ora vogliano stravolgerlo? troppa ipocrisia, troppo populismo. Sappiamo perfettamente che è solo questione di soldi. E’ il calcio bellezza, non quello della domenica seguito con le radioline in attesa dei risultati per il totocalcio. E’ il calcio, uno dei tanti capitoli del bilancio economico.
Qui Napoli – Francesco Schillirò – Area 11
Ma di cosa ci meravigliamo?
Ormai non esistono più sentimenti nel calcio; non esiste più attaccamento alla maglia; alcune volte non esiste una dirigenza indigena che mette passione nella squadra per legame con la città.
Viviamo in un mondo globalizzato nel bene e nel male, dove il “dio danaro” la fa da padrone.
Si è passati da un rapporto fiduciario “squadra-tifosi” ad un rapporto prettamente di “prestazione professionale aziendale” e non per colpa dei tifosi che ne sono le povere vittime.
Ci stiamo “desertificando”.
Dare e pensare solo a “Cesare”, significa distruggere quel che di bello c’è nel calcio:” la passione”.
La paventata Superlega, è l’evoluzione dei tempi; dimostrazione di forza e capacità di business in un “Club house esclusivo” per pochi.
Non condivido per nulla di voler arrestare questo progetto, definito, se non ricordo male “cinico”.
Io lo definirei “manageriale “ma ovviamente, come già in altri sport, non ci potranno essere più “appartenenze”.
A questo punto che farà la FIGC?
Per quanto paventato, ci dovrebbe essere l’esclusione dagli altri tornei, quindi dalle rappresentative Nazionali.
C’è ancora molto da chiarire e pavento che il non utilizzo di giocatori delle squadre della
” Superlega” nelle nazionali, sia un vulnus.
Ricordiamoci i pedatori “oriundi” e non “italici” che hanno ben fatto e hanno contribuito ai successi della nostra nazionale.
Se dovesse realizzarsi questa Superlega, ritenendo che la situazione sia ancora fluida e variabile, da appassionato, consiglierei alla FIGC la non radiazione ma l’iscrizione in un elenco speciale delle squadre interessate, mantenendo lo scudetto per le squadre pedatorie degli “italici campi”.
Qui Ascoli – Valerio Rosa – Area 5
42 anni fa il presidente dell’Ascoli Costantino Rozzi aveva letto nel futuro
La nascita della SuperLega di calcio è la naturale conseguenza di un processo di trasformazione iniziato anni fa e che ha portato il calcio a diventare spettacolo e non più sport. Le creazione di questa élite di società europee indebitate per centinaia di milioni di euro e che si divideranno il malloppo messo a disposizione dalla multinazionale americana JP Morgan, farà ulteriormente perdere tutto quel fascino che ha sempre avuto il calcio europeo fatto di sfide impossibili tra le big e le ‘cenerentole’ dei vari campionati nazionali. Noi che abbiamo amato lo scudetto dell’Hellas Verona di Bagnoli, quello del Cagliari di Gigi Riva, la favola del Chievo e delle provinciali come Ascoli, Pisa, Avellino e Catania, non possiamo accettare la nascita della SuperLega. Ma era inevitabile che accadesse. La nascita della Super League era stata prevista dal compianto presidente dell’Ascoli Calcio, Costantino Rozzi, già nel febbraio del 1979. Il ‘Presidentissimo’ come lo chiamano ancora nella Città delle Cento Torri, scomparso nel 1994, era un profondo conoscitore del mondo del calcio e un precursore. “A lungo andare avremo un campionato europeo con le più grosse società di ciascun Paese – disse Rozzi 42 anni fa – e, parallelamente, un altro campionato a carattere nazionale se non addirittura regionale con le altre. Juve, Inter, Milan, Torino finiranno inevitabilmente nell’élite e le altre migliori si misureranno in un diverso torneo. Non c’è via d’uscita. Certo all’inizio avremo un trauma non indifferente – ammetteva Costantino Rozzi – ma quando ci saremo abituati tutto sembrerà più normale”. A parte il Toro, profezia perfettamente centrata, ma quanta amarezza.
Qui Pesaro – Angelo Spagnuolo – Area 5
Ci restano comunque sempre i campetti di periferia con le squadre giovanili
Amo il calcio. Quando mi concedo una passeggiata, spesso come per effetto di una calamita sono attratto là, a ridosso di un campo e mi fermo a godere lo spettacolo offerto da combattute partite tra squadre giovanili, con i dirigenti accompagnatori a fare i guardalinee. In quei momenti di spensieratezza torno fanciullo, dimenticandomi per un po’ il resto del mondo.
Sono cresciuto seguendo l’Ascoli di Costantino Rozzi, vedendo un pittoresco signore con il cappotto – Romeo Anconetani – distribuire sale sul terreno di gioco prima delle partite del suo Pisa. Ero affascinato da Zico e da quella fascia bianca diagonale che avvolgeva completamente la maglia su base nera dell’Udinese. Ero incuriosito dai lupi di Avellino guidati da Dirceu e sostenuti da una tifoseria appassionata e corretta capace di splendide sciarpate.
Senza sapere che quei tempi così gloriosi non sarebbero mica tornati, ho vissuto lo scudetto del Verona, il Napoli di Maradona e Careca, lo spettacolo del Milan di Sacchi, la Samp di Vialli e Mancini che andò vicina così alla conquista della Coppa Campioni (che bello quando si chiamava ancora in questo modo, giocata solo dalle prime di ogni campionato, senza gironi, con il brivido dell’eliminazione diretta fin dal principio. Nostalgia canaglia).
Poi, negli anni in cui i miracoli sportivi ancora accadevano, la squadra di una città di provincia, nemmeno Capoluogo di Regione, il Parma, guidata da Nevio Scala, riusciva a vincere addirittura in Europa. E che bello ricordarmi studente universitario allo stadio Dall’Ara a tifare Bologna in una semifinale di Coppa Uefa contro il Marsiglia (non so se i millennials possono credere a tanto, eppure succedeva nel 1999).
In epoca più recente ci sono state le favole di Chievo e Sassuolo, la cavalcata dell’Udinese fino alla conquista della qualificazione Champions, l’Atalanta arrivata a un soffio dalla semifinale della coppa dalle grandi orecchie. Un sogno che si stava per realizzare, spezzato in pieno recupero dal gol di Choupo-Moting del PSG.
Da anni però già si era cominciata ad affievolire la magia: il campionato che era stato, se non sempre il più bello, perlomeno il più difficile ed equilibrato al mondo, con le grandi a prendere spesso sberle in provincia, è diventato infine scontato e prevedibile. Ha perso il suo fascino, il suo appeal è stato spodestato da quello della Premier, della Liga, persino della Bundesliga. E per paradosso dal 2012 in poi la Juve, troppo forte, ricca e straripante in Italia, fatturava troppo poco – ebbene sì, abbiamo iniziato ad affiancare il verbo fatturare alle vicende pallonare – rispetto alle altre big europee per vincere in Europa. “Quando ti siedi in un ristorante dove si pagano 100 euro, non puoi pensare di mangiare con 10 euro” ci avvisò Antonio Conte.
Seppur ogni tanto compare ancora qualche sporadico Davide a battere Golia (vedi Juve-Benevento di qualche settimana fa) il divario tra grandi e piccole, economico e tecnico, si è allargato a dismisura. Il tutto accompagnato da partite giocate in ogni ora a parte la domenica pomeriggio, diritti TV sempre più imperanti, procuratori nuove superstar del mondo del pallone, stadi scomodi e fatiscenti. Con il conseguente, graduale ma inarrestabile distacco del pubblico.
Non ho competenze finanziare tali da permettermi di giudicare adeguatamente l’operazione. Ma d’istinto e di primo acchito l’idea della Superlega non mi piace. Come ha scritto Marino Bartoletti sulla sua pagina FB “tre signorine dell’alta borghesia calcistica italiana (capricciose, avide e anche con qualche debito di famiglia) affette dalla sindrome delle Marchesine del Grillo hanno deciso che il pallone è il loro e d’ora in poi in Europa ci giocheranno solo con alcune presunte pari grado, per adesso”.
Ritengo anche che questa sia una svolta piuttosto annunciata, non troppo sorprendente. Non è la fine della magia. E’ più esattamente la certificazione che la magia si è spenta da tempo, da un pezzo. Sentenzia ufficialmente che il sistema calcio non riesce più a reggere. E per provare a respirare e allungare l’agonia si inventa tornei elitari senza storia, passato e fascino, almeno fino a prova contraria. Appropriatosi di enormi privilegi, ha accumulato troppi debiti che ha pensato bene di spalmare invece di saldare.
Ci restano comunque sempre i campetti di periferia con le squadre giovanili, i prati con le maglie a fare da pali delle porte. Perché il calcio è bellissimo anche senza Superleghe.
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Qui Lecce – Ludovico Malorgio – Area 8
L’augurio è che le federazioni blocchino sul nascere la Superlega
Penso che i grandi club d’Europa qualcosa dovessero inventarsi per sanare deficit paurosi che hanno accumulato con ingenti investimenti sbagliati e spese pazze. Nelle previsioni di questa Superlega, ideata dalle ‘12 sorelle’, autoproclamatesi le migliori d’Europa, infatti, vi sono montagne di milioni in arrivo da sponsor, tv ed altri movimenti speculativi. Guardando alla organizzazione attuale del calcio europeo e internazionale, la Superlega avrebbe l’effetto di uno tsunami. Dovrebbe soppiantare la Champions in base ad un criterio autoreferenziale in spregio alle regole che attualmente regolano la partecipazione, cioè i risultati ottenuti nei campionati nazionali. E qual appeal avrebbe nei confronti del tifoso un calcio standardizzato, sia pure su livelli molto alti, ma snaturato, cioè privato della sue peculiarità, la passione per la squadra del cuore, l’ansia per il risultato, la possibilità di sognare grandi traguardi, di sovvertire i pronostici aversi? Vero é che il calcio evolve da tempo verso una nuova forma di spettacolo, ma é altrettanto vero che riesce a mantenere saldamente le caratteristiche del confronto sportivo in cui emergono le qualità dei grandi protagonisti, ma sono molto importanti anche le doti dei comprimari. Con la Superlega, invece, il calcio corre il rischio di diventare pura esibizione di campioni in passerella, su un palcoscenico freddo e preordinato. C’é da augurarsi che le Federazioni nazionali interessate, e soprattutto l’Uefa, riescano a bloccare questo progetto, che rischia davvero di sconvolgere dalle basi il calcio europeo. Immagino le ripercussioni negative che il campionato dei ricchi’, come é stata definito, avrebbe sulle piccole società, sulle rappresentative Nazionali, sui vivai che rappresentano una ipoteca sul suo futuro. Quando i Club che l’hanno costituita siederanno al tavolo con l’Uefa si capiranno i veri obiettivi di questo progetto. Sono in ballo ingenti risorse finanziarie, la Superlega, che rischia di sconvolgere l’assetto del calcio nazionale ed europeo, potrebbe trasformarsi in uno straordinario strumento, in mano alle ’12 sorelle’, per ottenere dall’Uefa maggiori e sostanziose entrate finanziarie, che da tempo richiedono.
Qui Trieste Muggia – Matteo Contessa – Area12
Il mondo va avanti, così il calcio
Superlega, sì o no? Intanto, rischiamo di stare scrivendo una notizia già superata. Perché Manchester City, Chelsea e Atletico Madrid pare stiano già pensando di chiamarsene fuori e il comitato dei fondatori sta decidendo se andare avanti o abortire il progetto. Per eventuale mancanza di squadre, sia chiaro. Non per il fuoco incrociato che da lunedì si sta abbattendo su di essa. Perché i fondatori, che ci lavorano da anni e non sono un gruppo di scappati di casa, sanno quanto vale la partita e sanno anche di poter arrivare in fondo e portare a casa la vittoria.
Perché sì Il mondo va avanti, lo sport va avanti e anche il calcio va avanti. Non si può restare ancorati anacronisticamente a modelli superati. L’ignoto fa paura e si cerca di evitarlo in ogni modo, ma una volta che si è dentro ci si adegua. Chi oggi alza lai da tutte le direzioni fa finta di non vedere che già da anni il calcio di primo livello non è più uno sport, ma un’industria nella quale i principi non sono più decoubertiani, ma puramente economico-finanziari. Quella del diritto di competere per tutti che oggi si recita in coro è una favoletta per bambini, come quelle di Gianni Rodari. In realtà, il calcio di prima fascia è diventato uno spettacolo, che non può essere sempre ripetitivo altrimenti annoia gli spettatori e deve quindi continuamente alzare il livello. Uno spettacolo costoso, molto costoso. E soprattutto, globalizzato.
E al globo non si possono offrire campionati con due/tre protagoniste sempre al vertice (le più ricche, pensate un po’…) e tutte le altre sempre a distanze che aumentano anno dopo anno e si calcolano ormai con le unità di misura della geografia astronomica. Né campionati di scarsa qualità tecnica e spettacolare, appunto. Servono grandi rappresentazioni, grandi interpreti, grandi teatri. Per farlo, ci vogliono soldi. E questo è alla base di tutta questa gazzarra che si agita da lunedì. Le istituzioni calcistiche vogliono continuare a gestire la cassa; le fondatrici di Superlega, con la consapevolezza di avere appeal, fans e ricchissimi mercati in tutto il mondo (soprattutto nel Far East e nell’area arabica ricca sfondata di petrodollari) vogliono creare uno spettacolo di lusso e gestirne in proprio i proventi, lasciandone solo una parte alle varie leghe nazionali come contributo di solidarietà per i movimenti.
Il modello è quello dell’Nba, chiaro. Un torneo a sé, con adesioni selezionate, regole chiare per offrire sempre uno spettacolo top e partecipanti fisse, le migliori sulla piazza. E con i migliori giocatori del pianeta, pescati dovunque nel mondo, oltre a quelli propri. Proprio dal basket la Superlega ha imparato la lezione. Anche alcuni anni fa, quando l’Eurolega (guarda caso, anche quella guidata da spagnoli) decise di mettersi in proprio e uscire dall’orbita della Fiba Europa, si sollevò nella pallacanestro europea un polverone identico a quello di oggi, con minacce di squalifiche, radiazioni e scomuniche. Risultato: oggi l’Eurolega esiste e prospera con i top teams d’Europa, si è portata via dai campionati nazionali perfino gli arbitri, scegliendosi i migliori, mentre le squadre che hanno aderito giocano regolarmente anche i campionati in patria. Una vittoria basata su due pilastri. Il primo: nell’Europa capitalista nessuno può impedire la libera impresa, sarebbe concorrenza sleale. Il secondo: se veramente i più forti, i più blasonati vengono esclusi, chi li esclude perde potere contrattuale, investitori e quindi denaro, andando a vendere uno spettacolo di qualità inferiore. Con il rischio che anche i più ricchi finanziatori vadano dal nemico. Conviene?
Perché no. I fondatoridella Superlega sanno benissimo che se venissero cacciati dalla chiesa ortodossa calcistica, lascerebbero la chiesa semivuota. Perché insieme, le 12 fondatrici hanno vinto 40 Coppe dei Campioni/Champions League sulle 65 finora giocate, più un numero di titoli nazionali infinito. Per restare in Italia, ad esempio, e considerando solo dal dopoguerra a oggi, Juventus, Milan e Inter hanno messo in bacheca compressivamente 54 dei 70 scudetti assegnati. E da vent’anni (21, visto l’esito prossimo dell’attuale campionato) nessun’altra squadra riesce a mettersi davanti.
Il problema, però, è che con soli 3 Paesi è una Superlega monca e non sufficientemente rappresentativa. Mancano squadre blasonate di altre nazioni. Il Bayern, ad esempio. Ma anche l’Ajax, il Paris Saint Germain, il Benfica, il Porto. Squadre capaci di alzare qualità e blasone, e di allargare il perimetro del torneo. E oltretutto, di cooptare altri potenziali mercati investitori. Uno spettacolo all’altezza deve offrire, oltre ai grandi interpreti, anche il confronto fra visioni diverse di interpretazione. Perché la ricchezza non sta soltanto nei soldi, sta anche nel confronto tecnico e tattico, che rende frizzanti le sfide e allontana il rischio di omologazione tecnica e tattica nel gioco, che finirebbe prima o poi per annoiare. Fare un grande ensemble soltanto con un coro a tre voci non si può.
Qui Ozieri – Raimondo Meledina – Area 13
Un’ammucchiata di pochi
Sono fortemente contrario alla Superlega, ammucchiata di pochi clubs apparentemente ricchi, ma finanziariamente disperati, che, in un solo colpo, mortificherebbe oltre un secolo di meritocrazia, valori e storia
Qui Reggio Calabria – Tonino Raffa – Area 8
Aveva ragione Winston Churchil
Non era quello che immaginavano, ma alla fine un risultato lo hanno ottenuto. Sono riusciti a far coalizzare contro di loro il mondo intero. Fifa, Uefa, Leghe nazionali, capi di Stato e di Governo, istituzioni, esponenti politici di primo piano, dirigenti di società, grandi allenatori, giocatori e tifosi. Volendo parafrasare “l’Ei fu” manzoniano, potremmo dire che dalle Alpi alle Piramidi e dal Manzanarre al Reno, tutti hanno aperto un fuoco di sbarramento contro la costituzione della Superlega europea che aveva proposto un calcio esclusivo per i soli ricchi contro il calcio del sentimento e della meritocrazia. Sono stati respinti con tante “perdite” e la ritirata ha assunto le dimensioni di una “Caporetto”. Erano in dodici (sei inglesi, tre spagnole – Real, Barcellona e Atletico- più Juventus, Milan e Inter), puntavano ad essere in venti per partire subito. Sono andati a sbattere contro un muro e hanno dovuto fare marcia indietro quasi tutte. Alla fine sono rimaste, in pratica, solo Juve e Real Madrid costrette ad emettere nella notte un comunicato con il quale si dichiarano pronte a rimodellare il progetto dopo i dovuti approfondimenti. Vale a dire che tutto dunque è sospeso. Ma la guerra è destinata a lasciare ferite profonde. Stupisce il fatto che tanti dirigenti di lungo corso e tanti capitani d’industria, si siano mossi calpestando non solo la passione dei tifosi e il principio del merito sportivo, ma ignorando leggi, regolamenti, principi etici e giuridici che regolano il calcio internazionale sotto l’egida della Fifa, dell’Uefa e delle stesse leghe nazionali alle quali i loro club aderiscono. Tanto per non farci mancare nulla, si è messo di mezzo anche un tribunale di Madrid, che con una ordinanza emessa a tamburo battente ha diffidato l’Uefa ad emettere provvedimenti punitivi contro le formazioni spagnole. Tutto sorprendente perché questo tribunale non ha giurisdizione sulla Uefa e ha deciso senza il più elementare dei principi, quello della costituzione delle parti. Nessuno ne esce bene e in grave imbarazzo, tanto per restare nei nostri confini, sono oggi Juventus, Inter e Milan. Sarà difficile per esempio che Andrea Agnelli e Beppe Marotta riescano a mantenere gli incarichi che ricoprono nel consiglio di Lega.Se la Caporetto è di oggi, le radici tuttavia sono antiche. Il fair play finanziario voluto dieci anni fa dall’Uefa, non ha raggiunto nessuno dei suoi obiettivi : i bilanci sono in profondo rosso non solo per la pandemia ma soprattutto per la miopia di tante società che, dopo essersi consegnate mani e piedi alle televisioni, spendono molto più di quello che incassano e litigano, un giorno sì e l’altro pure, solo per la ripartizioene dei diritti Tv, senza mai affrontare il tema delle riforme di cui il calcio avrebbe bisogno. La superlega sarebbe una spericolata fuga in avanti. Garantirebbe tanti quattrini nell’immediato (che bisognerebbe comunque restituire in un certo numero di anni) ma un torneo esclusivo riservato solo a una ventina di club ricchi e senza retrocessioni, seppellirebbe il merito sportivo che da sempre è un pilastro dell’intero movimento. Il disegno per ora è naufragato, con molto gaudio da parte dei tifosi già in rivolta in diverse piazze e trattati da sempre come clienti ai quali svuotare le tasche. La minaccia (da parte dell’Uefa e della Fifa) di esclusione dei ribelli da tutte le competizioni internazionali e di revoca dei titoli nazionali, il divieto di utilizzazione dei giocatori nelle rappresentative dei loro Paesi e l’altolà dei governi hanno fatto da deterrente. Rimangono le tensioni e le controversie legali che comporteranno tanto lavoro per le diplomazie.E restano anche le perplessità di tutte le persone di buonsenso. Valeva la pena scatenare una rissa di questa portata mettendo avanti gli interessi di pochi a discapito di quelli collettivi e rinnegando accordi già raggiunti con l’Uefa per la riforma delle coppe europee a partire dal 2024 (più squadre, più partite, più introiti) ? A rendere più ambigua la posizione di Juve, Inter e Milan si aggiunge il fatto che dopo aver sposato l’idea della superlega, hanno dichiarato di voler continuare a giocare nel campionato italiano. Impossibile perché per iscriversi bisogna accettare le regole delle istituzioni, quelle che loro hanno cercato di violare. Come finirà? Intanto conviene attendere la prossima riunione dell’esecutivo Uefa. L’ente, per tentare di ricomporre la frattura, ha annunciato un progetto finanziario di sette miliardi di euro, in vista della Super-champions che dovrà partire fra meno di tre anni. Difficile dire se questo basterà per saziare le pretese dei ribelli, i cui club dopo tante gestioni dissennate e fuori controllo, usciranno dalla pandemia con le casse vuote e le ossa rotte. Forse aveva ragione Winston Churchill quando diceva che certi popoli affrontano le guerre come se fossero partite di calcio e trasformano le partite di calcio in altrettante guerre.