Qui Trieste Muggia – Matteo Contessa – Area12
Dragon Boat. Se lo chiedete in Cina, dove è sport nazionale e la pratica è anche obbligatoria a scuola, tutti sanno rispondervi. Ma se lo chiedete in Italia, è molto probabile che vi sentiate rispondere “dragon… cosa?!?”. Perchè qui da noi, questo mezzo di navigazione e competizione non è molto diffuso. O meglio non lo era. Perché da una ventina di anni a questa parte ha iniziato a diffondersi anche in Italia, dopo aver preso impulso in Canada prima e negli Stati Uniti a seguire. E vi sorprenderete a scoprire che, Cina a parte, in giro per il mondo sono sempre più numerosi gli equipaggi femminili.
C’è un motivo. Per trovarlo bisogna spostarsi sulle carte geografiche molto a ovest, fino a Vancouver, sulla costa canadese dell’Oceano Pacifico. E risalire il tempo fino al 1996. Nel febbraio di quell’anno l’equipe di Medicina dello Sport e Fisiologia della University of British Columbia, diretta dal dottor Don McKenzie, capovolgendo la teoria secondo la quale dopo l’intervento chirurgico di rimozione del tumore al seno la parte superiore del busto delle donne doveva essere tenuta a riposo per evitare l’insorgere del linfedema (il gonfiore debilitante e doloroso del braccio, fortemente invalidante), avviò un progetto pilota facendo allenare in Dragon boat un gruppo di 24 donne da poco operate. Era un gruppo di volontarie di età compresa fra i 31 e i 62 anni, eterogeneo per forma fisica ed esperienza sportiva. Ebbene, dopo 5 mesi di allenamenti a terra e in barca, nessuna di loro sviluppò il linfedema e anzi tutte si scoprirono più in salute e in forma, tanto da partecipare senza problemi alle gare sulla distanza di 650 metri. Si scoprì così che il movimento della pagaiata sostituiva egregiamente i massaggi per il recupero linfatico che si erano praticati fino ad allora.
Questi allenamenti segnarono l’inizio della confutazione della teoria dell’immobilità dell’arto operato e di una meravigliosa avventura, che a poco a poco evidenziò altri aspetti positivi per la riabilitazione psico-fisica, dal senso di cameratismo e solidarietà al divertimento e gioia di vivere, dalla metafora del “sentirsi tutte nella stessa barca” alla figura mitologica del drago orientale, portatrice di benessere fisico e rinascita. Inoltre, si resero conto che il dragon boat era anche un modo per sensibilizzare il mondo alla lotta contro il tumore. Così ha preso forma il movimento delle Donne in Rosa, al tempo stesso sportive praticanti e testimonial della lotta contro il tumore al seno, che ora conta circa 240 squadre nel mondo.
In particolare, la prima squadra italiana “in rosa” nacque nel 2002 quando si disputarono i Campionati Mondiali di Dragon Boat. Ai campionati parteciparono 3 squadre Breast Cancer Survivors (BCS) provenienti dal Canada, dall’Australia e da Philadelfia. Orlanda Cappelli, ex pagaiatrice e tamburina di dragon boat e unica italiana dell’ambiente con la stessa problematica, gareggiò con loro in rappresentanza delle donne italiane. In seguito Orlanda fondò a Roma la prima squadra italiana di BCS, le Pink Butterfly.
Il fenomeno poi è cresciuto e oggi in Italia ci sono circa trenta squadre, distribuite da nord a sud sull’intero territorio”.
“A Padova – racconta Adriana Giacomelli, socia fondatrice – la squadra UGO Unite Gareggiamo Ovunque nasce nel giugno del 2015, quando è stato dato avvio ad un progetto pilota realizzatosi all’interno della Breast Unit dello IOV (IstitutoOncologico Veneto) per iniziativa di una psico-oncologa che credeva molto nel progetto canadese. Al termine della sperimentazione di 3 mesi le 12 donne che erano state coinvolte si erano talmente appassionate allo sport in sé che hanno deciso di continuare l’esperienza grazie anche alla collaborazione con la Canottieri Padova e con l’Associazione Ricreativa Culturale e Sportiva (ARCS) dei dipendenti dell’Università di Padova. “
Abbiamo cominciato a gareggiare nel 2016 e nel 2019 abbiamo costituito l’Associazione UGO Unite Gareggiamo Ovunque – Onlus.
“Ora siamo una squadra di quarantasei donne tutte con pregresso di intervento di tumore al seno, di età compresa fra i 33 e 72 anni, delle quali una trentina in attività, anche se ultimamente le limitazioni dovute al Covid ci hanno tolto costanza. Attualmente disponiamo di due barche, un Dragone (la barca più grande, 12,49 metri di lunghezza con equipaggio di 22 persone: 20 alle pagaie, un timoniere e un tamburino per dare il ritmo di pagaiata) appena acquisito che abbiamo messo in acqua un mese fa e un Draghino (la barca piccola, lunga circa 7 metri, 10 alle pagaie più timoniere e tamburino). Entrambe sono custodite al Circolo Canottieri Padova, dove siamo di casa fin dalla nostra nascita”.
Pagaiare, però, non è solo un movimento terapeutico. In fondo si fa un’attività fisica impegnativa che mette bene in forma e sviluppa, oltre al piacere ludico e al senso di aggregazione sociale (“perché stare in venti in barca e pagaiare tutte con lo stesso ritmo vuol dire cominciare a ragionare tutte con la stessa testa…”), anche un certo spirito agonistico. Solo che questo aspetto per il momento è ancora un po’ random, con iniziative dei singoli sodalizi e non invece con un’attività continuativa razionalizzata e codificata. “Al momento non esiste un ente aggregatore di tutte le squadre, ci stiamo però lavorando – rivela la nostra interlocutrice -. Stiamo cercando di costituire una unione nazionale di società, sul modello degli enti di promozione sportiva, che raccolga tutte anche se di origini diverse. L’unione è ancora allo stato embrionale, non è facile trovare un punto di sintesi comune”.
E così al momento le competizioni, regate perlopiù sulla distanza dei 250/500 metri, vengono ancora organizzate dalle singole squadre. “Noi a Padova diamo vita, insieme all’ARCS, alla Dragon Porteo (dal nome del quartiere Portello), una regata sui canali cittadini. Altre gare vengono organizzate a Venezia, Roma, Torino, Bari, Firenze e così via. A volte sono solo gare di Donne in Rosa, altre volte abbinate con altre compagini. A Bardolino del Garda si disputa il Palio del Chiaretto (in onore del caratteristico vino), in Trentino la presenza abbondante di corsi d’acqua e laghi ha permesso un notevole sviluppo del dragon boat. Ma facciamo anche belle trasferte all’estero per gareggiare: Vienna, Barcellona, Annecy in Francia…”.
Il sogno, però, ha il fascino dei mari del sud. “Dal 10 al 16 aprile del 2023 in Nuova Zelanda sono in previsione i Mondiali, slittati, sempre a causa del Covid, dal periodo previsto in origine. Non avendo una federazione o un ente unitario, non potremo portare una squadra nazionale. E allora ogni società potrà iscrivere propri equipaggi completi o anche atleti individuali che poi andranno a confluire in equipaggi misti, sempre comunque di nazionalità italiana. In realtà – spiega – più che un campionato, è un festival mondiale delle dragon boat. Anche se in gara l’agonismo è totale, c’è poco di ludico”.
Come detto sopra, però, il movimento delle Donne in Rosa non è solo sport, ma anche testimonianza. “Certo”, conferma Adriana. Che racconta: “Facciamo anche attività di solidarietà sociale. Soprattutto testimonianza verso le donne che hanno subìto questo tipo di malattia, per far conoscere loro il nostro stile di vita ed esortarle a non abbattersi, spiegando che fare attività serve a risollevarsi moralmente, ma anche a trovare benessere fisico. Facevamo dei bei terzi tempi, prima che arrivasse il virus e ogni avvenimento personale o di squadra veniva degnamente festeggiato! In generale, siamo molto seguite e aiutate da Comune e Provincia di Padova per le nostre attività e veniamo coinvolte in eventi cittadini. Siamo inoltre partner della squadra maschile di volley di Padova che milita in serie A, i giocatori portano il nostro logo sulle maglie.
Adesso, però, siamo assorbite da questo sogno della Nuova Zelanda”.
Prima, però, bisogna imparare la Haka…