- L’assoluzione di Alex Schwazer rappresenta qualcosa di assolutamente straordinario nel panorama retrivo della lotta al doping, con soluzioni quasi sempre a senso unico. In questo caso gran parte del merito va a un personaggio speciale, il professor Sandro Donati che si è battuto a spada tratta per riqualificare l’atleta e giustificare (ci riferiamo a Rio del Janeiro 2016) quello che era qualcosa di più di un semplice sogno.
Il professor Donati è da sempre un antesignano della lotta al doping, sulla scia delle istanze prodotte a suo tempo da scienziati della motricità come Walter Bragagnolo, Sergio Zanon e Faustino Anzil tra i primi. Per gentile concessione dell’editore riproponiamo qui l’intervista a Sandro Donati curata da Francesco Barana e uscita nel volume “Il Profe che insegnava a sbagliare” (Fuorionda editore), pubblicato nello scorso novembre e dedicato proprio alla figura di Walter Bragagnolo. Nel corso dell’intervista il professor Donati analizza nei dettagli anche le implicazioni relative al caso Schwazer e non nasconde la speranze di portarlo alle Olimpiadi di Tokyo.
di Francesco Barana
Anni di battaglie. Di fronte comune. «Con Bragagnolo abbiamo lottato assieme contro il doping e la deriva dell’allenamento quantitativo di stampo sovietico che induceva gli atleti ad assumere anabolizzanti».
Sandro Donati, 72 anni, storico allenatore di atletica leggera -dal 1977 al 1987 anche della Nazionale italiana e oggi responsabile della metodologia dell’allenamento del Coni in vista delle Olimpiadi di Tokyo del 2021- simbolo della lotta al doping e tornato alla ribalta in questi anni per la strenua difesa del marciatore Alex Schwazer dopo il (controverso) caso della sua positività nel 2016, ha un ricordo intenso del prof. Walter Bragagnolo. Erano gli anni 70. «Non che ci frequentassimo molto, ci saremo visti una ventina di volte, ma quelle sono state importanti per la mia formazione. Quando ci incontravamo parlavamo a lungo, c’era comunanza di vedute, lui allenava Sara Simeoni e ci raggiungeva nelle trasferte con le squadre nazionali…».
-Che ricordo ne ha?
«Io ero un giovane tecnico emergente, lui già un’istituzione. Bragagnolo, con Russo, Vittori e Matteucci, ha dato un’impostazione all’atletica italiana».
-Eravate della stessa scuola di pensiero…
«Allora costituivamo una minoranza critica all’interno della Federazione, sostenevamo l’allenamento qualitativo e avevamo una lettura comune riguardo la presenza del doping diffuso nell’atletica. Ma Bragagnolo anche come preparatore rappresentava un qualcosa che oggi purtroppo in parte si è perso».
-Nello specifico?
«Lui apparteneva a una nidiata di insegnanti ISEF formati molto bene, che sapevano unire conoscenze teoriche e pratiche. Bragagnolo aveva profonde conoscenze della biomeccanica e nello stesso tempo disponeva di un occhio formidabile che gli permetteva di cogliere all’istante l’essenziale del movimento dell’atleta».
-Non è più così?
«Oggi manca l’equilibrio tra teoria e pratica. Purtroppo molti allenatori non sono laureati in Scienze Motorie (lo sbocco nell’atletica non conviene più economicamente) e sono privi delle giuste conoscenze teoriche; ma anche a Scienze Motorie, perlomeno in alcune facoltà, noto che si dà troppo peso alla teoria e questo toglie capacità di osservazione e di correggere l’atleta sul momento. Infine la Federazione negli anni ha reclutato gli allenatori spesso con logiche clientelari e non meritocratiche».
-Risultato?
«Registro una perdita tremenda per il nostro mondo. Rispetto ai tempi di Bragagnolo o dei miei inizi, gli allenatori di adesso grazie alla tecnologia dispongono di un quantitativo di dati impressionante, il problema è che non sempre sono bravi a contestualizzarli e a interpretarli. Questo conduce a commettere un errore a monte».
-Quale?
«Si tende a separare la forza dalla tecnica, come fossero due elementi separati che poi magicamente si combinano tra loro. Ma non è così, se lavoro sulla forza devo farlo già in funzione della complessità della tecnica di quello sport, ciò significa che devo compiere la scelta giusta sui carichi di lavoro e il tipo di esercizi. Purtroppo non si conosce a fondo l’anatomia e la biomeccanica e stiamo smarrendo il vasto patrimonio di conoscenza del preatletismo generale e specifico, quindi la gamma di esercitazioni a carico naturale. Insomma, assistiamo ancora una volta alla deriva della quantità e della forza fine a sé stessa».
-Il metodo quantitativo arrivò in Italia a fine anni 70 importato dall’Urss. Lei e Bragagnolo, come ricordava prima, eravate minoranza critica nel contrastarlo…
«A Mosca c’ero stato, avevo visto con i miei occhi e capito subito il loro sistema: sovraccarichi di lavoro e l’atleta portato sopra la soglia di uno stress continuo e insostenibile. Da lì la strada verso gli anabolizzanti era conseguenziale. In Italia per troppi anni si è taciuto, c’è stata grande ipocrisia, io nel 1987 fui escluso dalla Nazionale per le mie denunce. Sono stato ripescato solo di recente da Malagò, con la somma sorpresa dei molti miei nemici che mi credevano finito, morto e sepolto».
-Ci fu la denuncia e il pentimento di Sergio Zanon (preparatore e traduttore dei libri sovietici) a «Il Gazzettino» nei primi anni 2000, ricorda?
«Fu un’eccezione. Lui comunque per certi versi fu vittima di quel sistema, ma poi ebbe coraggio a pentirsi e a denunciare, seppur timidamente. Ma quanti altri facevano e non hanno mai detto niente? Ancora oggi si celebrano record abbastanza ridicoli e fasulli».
-L’impressione però è che l’industria del doping sia sempre un passo avanti all’antidoping.
«Non diamo una patente di scientificità al doping. Il doping è solo terra di personaggi tristi, che ci arrivano per emulazione. Gli allenatori che prendono queste scorciatoie appartengono a un gregge dalle scarse competenze che cerca la soluzione magica».
-Lei, simbolo della lotta al doping, nel 2016 si è trovato Schwazer, che in quel momento allenava, positivo per la seconda volta. Un caso controverso, dove i sospetti di manomissione delle provette sono forti. Da anni è in prima linea per difenderlo.
«Alex lo alleno ancora, non ho perso la speranza di portarlo alle Olimpiadi nel 2021. Oggi è anche più forte di quattro anni fa. Lo hanno inchiodato sul suo errore del 2012. Allora la squalifica fu giusta, sacrosanta, io stesso lo bersagliai senza sconti, adesso però è un’altra cosa, è una storia infame, di manomissione di provette. Hanno voluto fargli perdere credibilità dopo le sue denunce seguenti alla prima squalifica del 2012, l’odio verso di lui da allora è totale. Certamente poi hanno colpito lui anche per colpire me, non mi hanno mai perdonato di aver offuscato l’immagine di certi dirigenti dello sport».
-Come si contrasta il doping?
«Il problema non lo puoi risolvere, è utopistico pensarlo, tuttavia puoi ridurlo, devi concentrare le forze sulla riduzione del danno. La strada della cultura è quella giusta. In Federazione per anni non si sono assunti gli allenatori in base al loro talento, ma ci si è limitati a prendere atto di quelli che in qualsiasi modo, anche non ortodosso, ottenevano risultati. Mentre occorre formare allenatori fortemente preparati sulla qualità dell’allenamento, allenatori del genere tenderanno a rifiutare la strada del doping».
-Il sano narcisismo che porta a rifiutare le scorciatoie.
«Proprio così, ha detto bene. Chi accetta il doping è un mediocre, un insicuro, mentre l’allenatore bravo vive un sano senso della competitività che lo porta a non imbrogliare».
-Il metodo qualitativo dell’allenamento insomma è la strada maestra.
«Sì, esercizi mirati, lavoro di forza impostato sulla tecnica senza slegare i due elementi, qualità del movimento atletico, differenziazione dei carichi da un giorno all’altro, alternanza allenamento e riposo».
-È la lezione di Bragagnolo attualizzata?
«È la sua eredità. Lui coniugava un equilibrio perfetto tra teoria e pratica, padroneggiava la tecnica, aveva una grande capacità di osservazione e di comprensione del dinamismo dei movimenti. In una parola era un conoscitore della biomeccanica. Solo così puoi mettere, se lo ritieni opportuno, le mani sull’atleta, modificando una sua caratteristica o una sua tecnica».
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