-Da Mantova, Adalberto Scemma–
Sulla vita straordinaria di Ottavio Missoni è stato realizzato un podcast di prossima pubblicazione su iniziativa dell’ANVGD (Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia) per le edizioni di Storie avvolgibili e Osteria Futurista (testo e voce di Adalberto Scemma). Il podcast è dedicato ai campioni storici giuliano-dalmati (tra gli altri Nino Benvenuti, Abdon Pamich, Tiberio Mitri, Franco Luxardo, Duilio Loi, Orlando Sirola…). Pubblichiamo il testo per gentile concessione dell’editore:
Gli antenati di Ottavio Missoni, Ottavio all’anagrafe, Tai per gli amici, erano bretoni. Due di loro, i fratelli Misson, erano arrivati in Friuli al seguito di Napoleone e da qui avevano raggiunto la Ragusa dalmata. Il capostipite però era un pirata, Jules Misson, amico di Lord Byron che lo aveva descritto come “l’uomo più mite che mai abbia affondato una nave o tagliato una testa”. Quando lo raccontava, Tai rideva con gli occhi, Jules Misson era il suo orgoglio, era l’origine di quello spirito avventuroso e ribelle che l’avrebbe accompagnato in vita e che è tipico della gente dalmata di Ragusa, oggi Dubrovnik, la Ragusa mitteleuropea che Tai Missoni, in un suo libro dell’anima scritto con Paolo Scandaletti, chiama la città dei silenzi mattutini e dei canti d’osteria.
Il padre, Vittorio, era capitano di lungo corso, la madre Teresa, contessa de Vidovich di Sebenico, l’aveva sposato giovanissima, a 17 anni. Era di una bellezza incantevole, una donna dolcissima che non conosceva la tristezza. Quella di Tai Missoni era una famiglia molto ricca ma a tavola sedevano tutti alla pari, il vescovo e il pescatore, l’avvocato e il contadino. Poi, dopo l’annessione di Ragusa alla Jugoslavia, il trasferimento a Zara per frequentare le scuole italiane in una città più piccola, meno di ventimila abitanti, ma una metropoli se parliamo di sport e se vogliamo capire quanto questa cultura abbia poi ispirato per naturale adesione le scelte di vita di Tai Missoni, una vita sul filo di lana come lui amava dire, il filo del traguardo tagliato tante volte da vincitore e il filo di quei tessuti che hanno fatto conoscere al mondo i colori della sua terra, la Dalmazia perduta, smembrata e così profondamente amata.
L’agonismo, il confronto, la voglia di “giocare per mettersi in gioco”, erano a Zara storie di tutti i giorni. Poi ciascuno sceglieva per esclusione la propria specialità, nuoto, pallacanestro, tennis, ciclismo, canottaggio, anche atletica naturalmente. La corsa, il salto a ostacoli ai giardini con tre-quattro panchine da superare e il lancio della pietra, come i gallesi, come i baschi, erano in testa alle preferenze. Così dalla mattina alla sera e alla domenica allo stadio, su quattro corsie e su una pedana in terra battuta, si disputavano le gare vere, con un giudice e con un po’ di gente sulle tribune. Riposarsi mai. E questo spiega il perché e anche il percome di quel demone della corsa che spingeva Tai a osare sempre l’inosabile seguendo il consiglio del maestro Battara, comandante dei pompieri: “Corri come quando scappi giocando a guardie e ladri”. E così, correndo o scappando, senza mai inseguire, perché inseguire non è mestiere da ladri, eccolo, Tai, davanti a tutti nel salto in alto, nei 200 ostacoli e nei 300 piani al Gran premio dei Giovani ad Ancona, 1937. Sedici anni soltanto, era il più giovane in gara. E subito dopo a Napoli, alle finali nazionali, vittoria facile nei 300 metri e vittoria anche ai campionati italiani di seconda serie sui 400 con il primato nazionale allievi.
Arriva l’invito, a sorpresa, per il meeting dell’Arena di Milano, uno dei grandi appuntamenti internazionali, ed è qui che si accende la stella di Tai Missoni, che vince i 400 stracciando l’americano Elroy Robinson, primatista del mondo delle 880 yards, con un tempo strepitoso: 48”8, record mondiale allievi. Impresa da Guinness anche quella della settimana successiva con il debutto in Nazionale a Parigi, contro la Francia, un record che Tai detiene ancora oggi perché nessuno ha mai più vestito la maglia azzurra a 16 anni. Da quel momento una lunga collana di successi fino al titolo mondiale universitario sui 400 conquistato a Vienna con una proiezione di risultati vanificata soltanto dall’arrivo della guerra quando Tai stava esaltando il proprio talento sui 400 ostacoli.
Il destino gli aveva riservato invece ben altra impresa in una pagina che a raccontarla basta un nome: El Alamein. L’esito? Quattro anni di prigionia, ospite in Egitto, come amava ripetere, di Sua Maestà il re d’Inghilterra. Ma il ritorno in Italia, in una Trieste mai così amata per via delle atmosfere di casa e di un dialetto in tutto identico a quello dalmata, arrivò soltanto nel settembre del ’46, e gli regalò, insieme con il calore della famiglia che aveva a sua volta lasciato Zara, anche il piacere di sgambare a Valmaura, in un ambiente sportivo trasversale, il calcio di Nereo Rocco e Memo Trevisan, il basket di Cesare Rubini e l’atletica, naturalmente, l’atletica che all’epoca offriva pochi spiccioli, impossibile praticarla senza inventarsi un lavoro e qui stava il problema perché Tai, con il lavoro, aveva da sempre, diciamo così, un rapporto conflittuale. “Lavorare mi piace -diceva- ma non ho mai il tempo!”.
Eccolo a Milano, quindi, in una camera a due passi dalla pista del Giuriati, venditore di pubblicità per una rivista e poi attore di fotoromanzi per Bolero Film, quanto bastava per mantenersi e tornare a correre con un obiettivo, qualificarsi per le Olimpiadi di Londra, e con un mentore d’eccezione, Gianni Brera, che parlava di Tai come del figlio di Apollo.
Le Olimpiadi arrivarono sul serio e arrivò anche un risultato eclatante, la finale dei 400 ostacoli, poi gli Europei di Bruxelles, due anni più tardi, un quarto posto a chiudere una carriera che con altri presupposti l’avrebbe proiettato chissà dove. Nel frattempo l’incontro del destino con Rosita Jelmini, sposata nel ’51, e un sodalizio baciato dalla fortuna, l’intuito imprenditoriale di Rosita nel settore della maglieria e il génio artistico di Tai, il suo stile eccentrico e la magia di un colore usato come nessuno, tra i pittori moderni, aveva il coraggio di usare. Di qui le grandi mostre internazionali, la consacrazione della critica, le scenografie per La Scala, ma soprattutto la leggerezza con cui Tai, Ottavio Missoni, sapeva vivere il successo, le serate artistiche con Crippa, Morlotti, Dova, e le nottate con Gianni Brera e Arpino, e Mario Soldati, un clan letterario ravvivato dal rosso, il colore del vino, quel colore che Tai ha portato con sé dalla Dalmazia con i blu d’oltremare, i rossi aranciati dei tramonti e quel viola, il colore prediletto, scoperto chissà dove. E a chiudere l’avventura, su nuove antichissime strade, la splendida follia del ritorno alle origini, all’atletica dei Masters, campione del mondo over 60, over 70, over 80, quella corsa infinita, fino all’ultimo, sul filo di lana
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