Letteratura dello Sport
La ragione e il sogno
“Amo la corsa perché è poesia. Se la notte sogno, sogno di essere un maratoneta”. La frase è di Eugenio Montale, Premio Nobel 1975, personaggio multiforme, capace di spaziare dalla poesia alla musica (aveva studiato da baritono) ma sorprendentemente vicino anche al mondo dello sport.
E’ in libreria un prezioso contributo di Anna Nozzoli (“La ragione e il sogno”, Società Editrice Fiorentina) che focalizza aspetti di Montale inediti e suggestivi. Tra questi il rapporto con lo studioso mantovano Mario Artioli, che condivideva con il poeta la passione per la corsa di resistenza.
di Adalberto Scemma
Talmente moderno da essere perennemente fuori moda. Bobi Bazlen, chi era costui? Nomade, disinibito, informale, dissipatore, inesperto, veggente, enigmatico, ondivago: così lo raccontavano, senza mai riuscire a catturarne l’essenza. Più corretta sarebbe stata la definizione di “influencer”, se il termine non fosse già oggi -secondo prassi- irrimediabilmente fuori moda e se l’accostamento osmotico a Chiara Ferragni non avesse il suono asmatico delle botti vuote.
Un giorno Bobi, per 32 anni triestino poi cittadino del mondo, ispiratore con Luciano Foà e Roberto Calasso della casa editrice “Adelphi”, spedì a Eugenio Montale la foto di un paio di gambe. Solo gambe, nessun volto, nessun corpo e nessuna indicazione tranne questa: “Ti mando le gambe di Dora Markus, falle una poesia”.
Quelle gambe, e quella poesia, incatenarono all’ascolto una Casa del Mantegna stracolma di un pubblico ipnoticamente assorto. Perché il racconto fluiva dalla voce di Eugenio Montale che così giustificava l’assenso all’invito (all’ordine?) di Bobi Bazlen: “Come si poteva fare una poesia su una persona che non si conosce? Ma l’invito, questo invito, veniva da Trieste, città a me molto cara, e ho disegnato questo ritratto di fanciulla in un’Italia che guarda verso l’Istria, verso la Dalmazia, un’Italia che cerca di espandersi al di fuori dei suoi confini…”.
Era la prima sera d’estate, 21 giugno 1968. La Casa del Mantegna ospitava una mostra di incisioni e di pastelli che Montale, pittore a suo dire “di interessi molto secondari”, aveva realizzato a partire dal 1925. L’allestimento era stato curato da Mario Artioli e Gaetano Greco con la collaborazione di Vanni Scheiwiller, e la rivista “Il Portico” aveva organizzato un incontro con il poeta preceduto da un intervento dello stesso Scheiwiller e di Corrado Costa, poeta della Neoavanguardia, esponente di spicco con Adriano Spatola e Giorgio Celli del Gruppo 63. Da qui, dirò poi il come e il perché, è partita Anna Nozzoli per riscoprire, e riproporre, il testo di un discorso tenuto da Montale in quella occasione e mai inserito nell’ampia bibliografia del poeta. Un testo che sarebbe rimasto sconosciuto se Mario Artioli, provvidenzialmente, non avesse registrato l’intervento al magnetofono proponendone poi la trascrizione nel ’75 sulle pagine della “Gazzetta di Mantova” per celebrare l’assegnazione a Montale del Premio Nobel.
Anna Nozzoli è una raffinata e autorevole studiosa della letteratura italiana, docente all’Università di Firenze e attenta a un esercizio “sfaccettato e plurivoco” della critica, proposta intrecciando l’analisi formale e la contestualizzazione storica con l’escussione -come nel caso del Montale mantovano- di testi rari. Prezioso dunque, e per tanti aspetti sorprendente, l’intervento inserito ne “La ragione e il sogno- Su Montale in versi e in prosa”, edito dalla Società Editrice Fiorentina e destinato alla prestigiosa collana di letteratura internazionale diretta da Gino Tellini.
La peculiarità del discorso pronunciato a braccio da Montale è tutta nell’immagine di sé che il poeta concede ben al di là della consuetudine, lui sempre così attento a evitare ogni accenno biografico che trapeli dall’analisi dei suoi scritti. Ma qualcosa di magico, la luce di un accadimento sciamanico, doveva essersi precisato nel pomeriggio, quando a irrompere nelle pause di silenzio del pranzo al “Rigoletto” (la timidezza, il disagio, la conversazione che languiva) fu una comitiva di insegnanti e studenti fiumani, catapultata d’impeto al tavolo di Montale per non perdere l’occasione di una parola con il poeta.
Fiume, l’Istria, Trieste, tutti quei luoghi così amati da Montale, avevano riacceso il discorso all’improvviso incanalandolo su traiettorie di ineffabile vigore narrativo: Svevo, Joyce, Saba, Stuparich e Bobi Bazlen, appunto, “suscitatore” occulto di emozioni. E l’emozione era sortita a sorpresa, nelle parole accalorate di Montale, raccontando l’innesco imprevedibile di Dora Markus, l’incipit in un paio di gambe sconosciute e nella dolcezza irrequieta di una ragazza che “addita all’altra sponda invisibile la sua patria vera”, e l’explicit in un momento successivo, sovrappostosi per una sorta di metamorfosi lirica e dedicato invece a una donna vera, quella Gerti Fránkl che il poeta aveva forse amato o sognato d’amare.
Fu come se Montale avesse voltato la pagina del tempo per ritrovare a sorpresa un mondo inedito e parallelo, personaggi incapsulati nella memoria ma improvvisamente alieni e forse proprio per questo -il paradosso della mente- più vicini al suo cuore. Ecco dunque il cambio di passo nella conversazione, con un atteggiamento ironico e divertito fino all’esplosione canora con voce da basso lirico di un tonante attacco della “Calunnia” rossiniana.
Un Montale “altro da sé”, nella percezione del pubblico, anche alla Casa del Mantegna, in una sera che la città -cito Mario Artioli- “viveva in un clima di prevacanza, un’aria svagata dopo una giornata di sole caldo e già quasi afoso”. Anna Nozzoli sottolinea non a caso il tono affabile e divertito del poeta nel confessare -rarissima se non unica concessione- un proprio insospettabile “amor vitae”, emerso soltanto a tratti in circostanze peraltro isolate.
“Amo la corsa -scrisse Montale in età senile- perché è poesia. Se la notte sogno, sogno di essere un maratoneta”. E qui scattò subito con Mario Artioli una sorta di empatia sinergica per una comune passione, la corsa prolungata. Perché alla maratona forse soltanto sognata da Montale faceva da contraltare il mezzofondo praticato invece con continuità e con buoni risultati da Artioli nei campionati studenteschi con la maglia del Bellini-Pastore e nelle gare federali con quella della Libertas Mantova. Le cronache gazzettiere narrano di un suo tenacissimo contributo allo storico record provinciale dei 1500 battuto da Antonio Pizza sulla pista di Cremona: fu Mario Artioli a dettare coraggiosamente nel primo chilometro il ritmo-gara che sortì poi il primato.
“Io credo -disse Montale quella sera- di aver amato molto la vita e che questo sia un elemento della mia poesia che finora, forse, non è stato sufficientemente considerato. Io non sono stato un leader, un dirigente, un uomo attivo, un portabandiera in nessun campo della vita pratica e in questo senso la vita mi è sfuggita, ma l’ho veramente desiderata, è questo il punto, e lo lascio chiarire ai critici, agli psicanalisti (che ho sempre evitato come la peste), insomma lo lascio dire agli altri. Evidentemente c’è forse in ogni poesia, ma certamente c’è fortemente nella mia, una lotta tra la vita e la non-vita, una specie di dissidio permanente”.
A questo punto ecco il soffio dell’imprevisto, la magia sottile di un commiato mai neppure supposto da Montale, e dal pubblico, nella sua armoniosa semplicità: “Se permettete vorrei, così a modo di chiusura, leggere una poesia, una delle più facili, per spiegare come è nata e in quali bizzarre e strane circostanze può nascere una poesia di uno che non ha mai scritto poesie a tavolino…Ovvero sì, ho scritto anche poesie a tavolino, ma quando non ne potevo fare a meno, quando il parto era quasi lì lì per avvenire e occorreva l’ostetrico: cioè la carta, la penna, il calamaio, la macchina da scrivere o qualche cosa di simile e allora, in queste situazioni, si può scrivere delle poesie così”.
“Ecco Dora Markus -proseguì Montale-: in Dora Markus c’è apparentemente un solo personaggio, colto in due momenti della sua vita: la gioventù piena di slancio, di speranze, di certezze, di fiducia nel futuro, e la vecchiaia, il ripiegamento, la tristezza, la solitudine. Questa è l’impressione di un lettore che legga senza saper niente, che non abbia nient’altro. Ma come è nata questa poesia?”.
Della prima parte sappiamo, l’invito-sfida lanciato da Bobi Bazlendi per una poesia da dedicare a un paio di gambe sconosciute e all’”irrequieta dolcezza” percepita in un Altrove soltanto immaginato: “Non so se stremata tu resisti/ in questo lago/ d’indifferenza ch’è il tuo cuore, forse/ti salva un amuleto che tu tieni/vicino alla matita delle labbra, /al piumino, alla lima: un topo bianco, /d’avorio, e così esisti!”.
“La poesia -continuò Montale- s’arrestò a questo punto. Naturalmente avevo detto fin troppo di un personaggio immaginario, ma dopo molti anni ripensai a un’altra donna, questa non più immaginaria ma reale, che avevo già introdotto nella poesia Carnevale di Gerti: un’ebrea viennese vissuta a Trieste che aveva avuto molte peripezie, due o tre mariti, due o tre sciagure, che aveva destato passioni, avversioni, insomma una vita tempestosa che poi non aveva lasciato traccia di sé. Allora mi è venuta l’idea di fonderla con l’altra da me non conosciuta e di completare con questa metamorfosi la poesia.
Nacque così la seconda parte di Dora Markus, ebrea tra l’altro, e qui trovate la spiegazione della “fede feroce che distilla veleno”, una frase che fece ingrullire la critica, giustamente, perché molte poesie dovrebbero essere annotate. Come vedete la presenza di una donna reale ha dato un po’ più di corpo alla poesia, le ha dato quel tono che oggi diremmo asburgico e che nell’inizio di Dora Markus, personaggio ipotetico, non poteva esserci. Così si è compiuta questa poesia incompiuta, in un modo del tutto anomalo anche per me e forse anomalo per molti altri. E’ uno dei tanti casi in cui io mi sono lasciato scrivere e ne è venuto fuori qualche cosa che spero sia ancora oggi leggibile, comprensibile”.
“Con questo -concluse Montale- ringrazio Mantova per avermi dato l’occasione di venire in questo piccolo ritrovo. In una grande città mi sarei trovato spaventato ma in una città così piccola e così importante, dove ci sono giovani così appassionati alla ricerca letteraria veramente non ho potuto resistere alla tentazione e sono venuto. Grazie a tutti”.
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C’è a questo punto un’immagine laterale, non dico un pensiero, colta da Anna Nozzoli nel suo intenso e meticoloso lavoro di raccolta dei dati. Riguarda, e non di sbieco, almeno due figure che si affiancano nella messa a fuoco del Montale mantovano a quella ampiamente codificata di Mario Artioli (Foto), allievo di Anceschi e redattore del “Verri”: da un lato Vladimiro Bertazzoni, che avrebbe ricostruito in “Autografi e incontri” (Edizioni del Centenario, 1995) alcuni momenti godibilissimi di quella memorabile giornata, dall’altro Luciano Spagna, puntuale e colto recensore dell’evento sulle pagine della “Gazzetta”. E tuttavia proprio l’attenzione della Nozzoli a certi scampoli non banali di quell’intensissima nostra stagione culturale induce a riflettere su quanto poco la Mantova d’oggi abbia a cuore la memoria di quei giorni. Eppure ci sono stati anni in cui la cultura mantovana vibrava sulle pagine del “Portico”, di “Bancarella” e di “Carta Bianca” in un mix politically incorrect che includeva insospettabili contaminazioni. Un fervore creativo diventato oggi storia ben al di là dei confini provinciali (l’attenzione di cattedratici come Franco Contorbia e Gilberto Lonardi) e tornato recentemente d’attualità con “Rosso di sera” e con “Il Portico” in digitale. Fino a quando, tuttavia?
Il fiume dei ricordi, per fortuna, non conosce la siccità, non corre il rischio di secche improvvise, ha una portata che procede in accelerazione, come il tempo della nostra vita. E così, una volta delineato il ritmo della corrente, ecco che trascina di tutto, testimonianze, banalità, approfondimenti, amenità, speranze. E una serena nostalgia.
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