Redazione Gianni Brera- Letteratura sportiva
Uno scrittore di stampo antico che continua imperterrito, da oltre mezzo secolo, a tifare per la Pro Patria-Da Kubala a Reguzzoni, da Antoniotti a Re Cecconi il fascino di giocatori che interpretavano il calcio con inimitabile maestria
-di Alberto Brambilla–
Ogni tanto mi inquieto al pensiero di seguire la Pro Patria da più di mezzo secolo, perché indirettamente questo dato segnale che ormai mi sto incamminando verso la terza o quarta età. Ho scritto ‘seguire’ ma dovrei sostituire il verbo con tifare o, meglio ancora, spasimare. Già, la Pro Patria et Libertate, la mia squadra, la mia famiglia, fiore all’occhiello di Busto Arsizio, la mia città. Per molti aspetti la Pro Patria con il suo nome altisonante e patriottico potrebbe sembrare una sorta di relitto, un caso particolare di archeologia calcistica. Perché discende in linea diretta da una Società ginnastica (e subito dopo polisportiva) fondata nel lontano 1881, anche se poi è solo dal 1919 che è stata ufficializzata l’esistenza di una sezione calcistica. Di tali lontane radici ha per fortuna conservato la maglia, che è unica e bellissima, a strisce orizzontali bianco blu, un miracolo di estetica e un riassunto di storia. Forse ricordo dei tessuti che sin dalla fine dell’Ottocento le diverse fabbriche locali (Busto era definita la città dalle cento ciminiere) producevano per il mercato interno e per l’esportazione.
Mi ha sempre affascinato questo legame ideale e insieme concreto tra operai e giocatori rappresentato appunto dalla maglia, che in qualche modo sintetizza una fatica collettiva e dà un senso pregnante al sudore e all’impegno dei calciatori. Così forse si spiega una delle caratteristiche di fondo che sono rimaste nel DNA della squadra, vale a dire un’innata aggressività, un impegno muscolare e fisico sempre allo spasimo, il sacrificio personale in nome della squadra (Pro Patria mori!). Solo così poteva sopravvivere in serie A una squadra come la Pro Patria, a fronte di città e squadre ben più importanti, che potevano affiancare la forza alla tecnica e al bel gioco. Da qui immagino discenda anche il soprannome di tigrotti assegnato da Bruno Roghi alla Pro Patria, definizione forse suggerita dalla disposizione delle strisce bianco blu ma ancora di più dall’atteggiamento spavaldo di chi non ha niente da perdere e comunque non si sente inferiore a nessuno.
Ciò non toglie che abbiano calcato le zolle dello Stadio Comunale (poi intitolato al grande podista Carlo Speroni) di Busto Arsizio fior di calciatori, di cui da bambino ho sentito parlare da mio padre che mi ha trasmesso il morbo del tifo. Cito solo tre nomi, che mi sono rimasti impressi fin da piccolo, come le preghiere della sera. L’enfant du pays Carlo (affettuosamente Carletto per i bustocchi) Reguzzoni, Lello Antoniotti e Laszlo Kubala. Il primo fu una delle più grandi ali sinistre della storia del calcio italiano e trovò la sua consacrazione nel Bologna “che tremare il mondo fa” segnando una valanga di gol (saranno 168 con la maglia rossoblu) e vincendo più campionati e due Mitropa Cup. Ma poi tornò nella piccola patria dando ancora una mano ai tigrotti. Qui riaffora un ricordo personale, perché dopo una lunga carriera Reguzzoni aprì un negozio di merceria a pochi metri da dove abitavo, in corso XX settembre. Era un negozio modesto, poco illuminato, dove Reguzzoni vendeva maglie e bottoni. Dico così perché appena possibile mi recavo da lui per sostituire un bottone o una cerniera e mia mamma si stupiva di tale disponibilità; erano scuse per vedere quell’uomo alto e asciutto di cui papà Piero mi aveva decantato le imprese. Ma lui era taciturno e come immalinconito ed era difficile strappargli qualche parola. Il non aver conversato a lungo con lui, per soddisfare a tante curiosità, è uno dei miei più grandi rimpianti. Non ho conosciuto Antoniotti, ma ho ammirato la sua tecnica sopraffina; a Busto si parla ancora di una sua rete contro la Fiorentina, dopo aver dribblato l’intera difesa, portiere compreso (era Costagliola che cavallerescamente si congratulò); Lello era destinato a una luminosa carriera interrotta purtroppo dalla sua fragilità fisica. Il mito forse più luminoso fu la meteora Laszo Kubala, che fuggito dall’Ungheria comunista approdò dopo alcune traversie a Busto Arsizio, grazie alle insistenze dell’allora presidente Peppino Cerana. Alla Pro Patria trovava oltre che Lello altri due connazionali, István Turbéky e Jenő Vinyei. L’intervento della Federazione calcistica ungherese impedì purtroppo a Kubala di scendere in campo in quel campionato 1949-50, che con il fuoriclasse magiaro (ma di origine slovacca) avrebbe potuto dare grosse soddisfazioni ai tigrotti.
Così a Kubala restarono solo alcune partitelle d’allenamento o alcune amichevoli. Ma mio padre scappava dal lavoro per poter vedere in allenamento quel fuoriclasse che si divertiva a colpire pali e traverse da metà campo. Il presidente Cerana scommetteva con lui, ed era un pretesto per fargli guadagnare qualche liretta. Alla fine si fece avanti il Barcellona e il giocatore fu ceduto, tra lo sconforto dei tifosi che già sognavano lo scudetto. Potrei naturalmente fare altri nomi illustri come Candiani (bustocco doc), Turconi, Cavigioli, Taglioretti (vera bandiera della squadra, è lui che detiene il record di presenze), ma certo dimenticherei altri protagonisti di quegli anni gloriosi.
Tempi lontani che ho vissuto sull’onda dei ricordi paterni ho ritrovato fra le pagine di vecchi giornali o di figurine spiegazzate. Personalmente ho assistito solo a un paio di campionati con la Pro in serie B, e allora il mio paladino era Enrico Muzzio, poi ceduto alla Spal. Ho potuto vedere all’opera “Wolkwagen” Re Cecconi, un giovanotto allegro e senza paura; e poi molti altri destinati a carriere più o meno luminose. Tra tutti ricordo Michele Solbiati (“biondo era e bello e di gentile aspetto”), tecnicamente un fenomeno, fermato da un grave infortunio. Poi tanta serie C e alcuni campionati tra i dilettanti, come dire poche gioie e tante amarezze. Oggi la Pro Patria partecipa con onore al Campionato di serie C girone A ed è amministrata con saggezza da una simpatica Presidentessa, Patrizia Testa, che non promette mai e monti ma paga puntualmente i giocatori e non fa debiti. È coadiuvata dal direttore sportivo Sandro Turotti – un esperto della terza serie – e salvo sorprese dell’ultima ora, allenata da Ivan Javorcic, uomo serio ed allenatore preparato. La città, purtroppo, vive soprattutto di glorie passate e allo stadio i tifosi sono sempre quelli, i giovani non si avvicinano, ammaliati da altre più allettanti sirene. D’altronde è Busto stessa alla ricerca della propria identità. Svanito da decenni il sogno di diventare provincia (anche se Busto supera per abitanti il capoluogo Varese), chiuse le grandi fabbriche per l’impari sfida con le produzioni dei mercati emergenti, politicamente bloccata da decenni, la città continua a costruire abitazioni e negozi destinati a rimanere sfitti, mentre la grande distribuzione sta strozzando gli artigiani e i piccoli commercianti. All’orizzonte non si vede per ora un salto di qualità e anzi c’è il pericolo concreto di diventare periferia dell’area metropolitana milanese. Io continuo però ad andare allo stadio e ad amare la città in cui sono nato.