–Redazione Gianni Brera – Letteratura sportiva-
L’incontro con Massimiliano Castellani, raffinata penna di “Avvenire”, inaugura una rubrica dedicata ai personaggi che hanno innovato il linguaggio dello sport-
di Federica Zaniboni
Non soltanto un gol, un sorpasso, una medaglia o un nuovo record. Raccontare lo sport può essere una questione ben più intima e profonda, a tratti anche romantica. Sicuramente lo è per Massimiliano Castellani, raffinata penna di Avvenire, che vive la professione con uno sguardo attento e sempre in cerca di una storia. Un tipo di giornalismo, il suo, che unisce l’amore per l’arte alla passione per il pallone, e le cui radici affondano nell’infanzia e adolescenza trascorse in provincia di Perugia.
La cittadina di Spoleto – dove il giornalista nasce il 10 settembre del 1969 – gli offre grande ispirazione, soprattutto grazie al festival internazionale che si tiene ogni anno. «Sono cresciuto in un clima meraviglioso, circondato da musica, teatro e letteratura» spiega. «Il mio primo istinto giornalistico nasce per la cultura». Ma allo stesso tempo lo stadio, che Castellani considera come il maggiore centro di aggregazione in Italia, fin da subito è per lui un luogo più che familiare. Tanto che, come racconta, «la prima volta ci sono stato a 6 mesi: mio padre mi aveva portato all’Olimpico a vedere Lazio-Juventus».
Così, mentre da ragazzo scrive di spettacoli e libri, per poi passare in un secondo momento alla cronaca perugina, Castellani comincia a capire qualcosa che da allora segnerà sempre il suo lavoro. «Già a quei tempi ero convinto che il calcio fosse una branca della cultura: mi colpiva il fatto che in Italia, il Paese fondato sul pallone per eccellenza, non venisse considerato tale». Un’idea estremamente lucida, che rappresenta le fondamenta sulle quali poi costruirà tutta la sua visione del giornalismo sportivo. «Uno dei lavori di cui vado più fiero – dice con un sorriso – riguarda i due giornali che mi sono inventato quando avevo 24 anni, “Perugia Stadio” e “Ternana Stadio”. L’editore era Alberto Mesca, il primo ad aver creduto in un giovane di provincia» ricorda. «I settimanali uscivano tutti e due la domenica, e io ero il direttore di entrambi. C’era molta competizione tra le squadre, il mio intento era quello di provocare».
Una fortissima ammirazione lo spinge verso chi è riuscito a parlare di calcio facendo letteratura. E uno dei maggiori riferimenti è da sempre Osvaldo Soriano, giornalista e scrittore argentino morto nel 1997. «Quando l’ho scoperto, ho capito che la direzione era questa: limitarmi a parlare della partita mi stava stretto. Mettere insieme i pezzi della cultura, invece, aiuta ad avere un orizzonte». Ma Soriano non è l’unico, tra gli scrittori dell’America latina, ad affascinare Castellani. «Un altro grande giornalista è Galeano, che passava dallo sport al reportage di guerra. Nel Sudamerica c’è uno sguardo diverso rispetto all’Italia» continua. «Gli stadi argentini, ad esempio, sono rimasti gli stessi degli anni ’70. In quella parte del mondo vivono il calcio in maniera più sanguigna e verace, distante dall’espetto commerciale». E mentre questo tipo di lavoro veniva portato avanti dai mentori latinoamericani, Castellani ricorda che anche l’Italia, per un certo periodo, non è stata da meno. «Pasolini ci ha insegnato che esiste uno sport di poesia, ed è stato il primo a considerare i fonemi della lingua italiana trasportati a un campo di calcio. Veniva anche oltraggiato, per questo: in quegli anni un intellettuale non doveva occuparsi di stadio e cose frivole». E poi, naturalmente, fra i più grandi c’è stato Gianni Brera, che ha rivoluzionato il linguaggio sportivo. Proprio a lui è dedicata una delle ultime pubblicazioni che porta anche il nome di Massimiliano Castellani, A’ Riccione, che prima ancora di essere un libro è uno dei più noti ristoranti di pesce a Milano. Pubblicato nel 2019, in occasione dei cento anni di Brera, il volume ripercorre la storia del cosiddetto “Club del giovedì”, nato da un’idea del giornalista pavese «A queste cene partecipavano diversi personaggi della società milanese, tra colleghi, artisti e letterati» spiega Castellani. «Era un cenacolo che partiva dalla necessità di scambio e confronto, caratterizzato dall’amicizia che legava i partecipanti. Col tempo divenne una sorta di rituale: il vino, la grappa, il gioco delle carte… La cosa divertente è che Brera non mangiava il pesce e si faceva sempre cucinare la carne». Insieme al libro, però, germoglia anche il desiderio – o meglio, il bisogno – di far rivivere le atmosfere di quel club. «La nostalgia accompagna per mano la memoria. Ma finché siamo vivi e abbiamo delle idee, alcune situazioni si possono anche riprodurre».
Proprio la nostalgia è un altro aspetto importante nella letteratura sportiva dei nostri tempi, che inevitabilmente tende a rifarsi a quella del passato. «Ad Avvenire c’è un piccolo laboratorio nel quale ragazzi tra i 20 e i 30 anni lavorano a una pagina sportiva un po’ alternativa che esce la domenica ed è siglata con l’occhiello Storie di cuoio» racconta. «Cerchiamo la narrazione, con lo scopo di renderla più naturale possibile, perché se risulta forzata si rischia di diventare degli scimmiottatori» continua. «Letteratura sportiva significa andare alla ricerca di quello che esiste nella tradizione linguistica applicata allo sport con uno sguardo sull’attualità».
A questo punto sorge spontaneo domandarsi cosa sia cambiato in Italia durante gli ultimi decenni e perché si sia sviluppata la necessità di attingere ai grandi nomi del secolo scorso. «La situazione adesso è un pochino fiacca» ammette Castellani, aggiungendo poi che una delle cause può essere senz’altro ricondotta al giornalismo tifoso. «Ha trasformato alcuni colleghi in scimmiette ammaestrate, che vanno nelle trasmissioni a sbandierare la loro fede calcistica» spiega. «Non dico che debbano essere tutti per forza dei geni, ma professionalità significa anche mantenere una certa distanza».
Laureato in filosofia con una tesi su Anna Harent, Massimiliano riconosce l’influenza che gli studi tendono ad avere sulla carriera. «Nel mio caso mi hanno insegnato a leggere e a ragionare. E quando si è in grado di leggere, si è anche in grado di scrivere» sottolinea. «Fra qualche anno mi piacerebbe mettere al servizio dei ragazzi l’esperienza e la passione che ho dentro, e comunicare loro quello che so riguardo al giornalismo».