Tonino Raffa
Il mestiere del giornalista reca con sé un paradosso. Viviamo con la libidine delle notizie, le cerchiamo attraverso le varie fonti, le scriviamo, le aggiorniamo, le inseguiamo tutti i santi giorni. Ma, allo stesso tempo, ci sono notizie che non vorremmo sentire mai. Perché dietro il giornalista c’è sempre l’uomo, con i suoi sentimenti, le sue passioni, i suoi valori, i suoi ricordi, i suoi miti. Appartiene a questa ristretta cerchia, la notizia della morte di Diego Armando Maradona, la più grande icona del calcio mondiale, accostabile solo a Pelé. E’ lutto nei cinque Continenti, dove in pochi attimi tutti gli organi d’informazione hanno dovuto sconvolgere i loro palinsesti. Il campione argentino aveva festeggiato qualche settimana fa il sessantesimo compleanno e la sua salute malferma aveva ricevuto un altro colpo : si era dovuto sottoporre ad intervento per la rimozione di un grumo alla testa, formatosi dopo una caduta. Operazione riuscita, riabilitazione iniziata, tutti avevamo tirato un sospiro di sollievo, sicuri che gli sarebbe riuscito anche quest’ultimo “dribbling”. Non è stato così, il suo cuore già affaticato, non ha resistito ad una nuova crisi e Diego è volato in cielo lasciando nella disperazione milioni di fans. In momenti come questi, non contano solo le statistiche e i trofei (Un mondiale, uno titolo in patria, due scudetti, una coppa Uefa e una coppa Italia con il Napoli) conta anche ricordare ciò che il personaggio Maradona ha rappresentato sul piano mediatico e su quello della popolarità in chiave emotiva. Ha ispirato poeti, scrittori, registi e sceneggiatori, se lo sono contesi a lungo sovrani e capi di Stato. In ogni angolo del mondo Diego ha scatenato ondate di entusiasmo collettivo, con bagni di folla incredibili. Per vederlo giocare, in qualche occasione è stato anche ordinato il cessate il fuoco nei Paesi in guerra. Sotto l’aspetto squisitamente tecnico, resta scolpito nella memoria collettiva tutto quello che Diego ha fatto nel mondiale dell’86 in Messico, con le due reti all’odiata Inghilterra (una irregolare, con la mano, leggendaria per l’astuzia, l’altra con uno slalom spettacolare di cinquanta metri, giudicata la migliore in tutta la storia della rassegna iridata). Quel mondiale lo ha vinto quasi da solo, caricandosi sulle spalle una squadra appena normale. Ma ci sono anche le sette stagioni trascorse a Napoli, dove la società non era mai riuscita a vincere prima uno scudetto. Nelle strade nei vicoli, nei balconi e nelle piazze la città piange colui che ha ha dato corpo ai sogni e resterà per sempre il suo Re e la sua fama rimarrà immortale.A tutti i napoletani “…quando spunta la luna a Marechiaro” verrà sempre la voglia raccontare romanticamente a figli e nipoti la favola di Maradona. E ci sarà tanto da aggiungere oltre la descrizione dei gol e degli scudetti. Perchè “El Pibe” ha rappresentato un universo ancora più complesso. Pieno di slanci e di affetto per i compagni, a favore dei quali ha sempre speso la sua leadership, sempre polemico con i poteri istituzionali del calcio, che non gli hanno perdonato mai la sua indomabilità e le sue critiche. Quanto a tutto il resto, soltanto negli ultimi tempi, Diego aveva cominciato a riflettere sulla sua fragilità, sui suoi eccessi con il mondo femminile (cinque figli, tre dei quali fuori dal matrimonio), sul passato da tossicodipendente, sulle vicende giudiziarie, sulle controversie con il fisco, sui problemi con l’alcool, con la depressione e con la bilancia (due bypass gastrici, una crisi cardiaca, diversi ricoveri per interventi alla spalla e alle ginocchia). Forse era già tardi : aveva iniziato molto prima a prendere a calci anche la sua vita. Lo ammise candidamente : “non ho mai fatto male a nessuno, se ho sbagliato ho fatto male solo e me stesso”. Lascia una scia di rimpianti perché si era detto pronto ad affrontare nuove sfide. Per esempio aveva invocato la “Mano de Dios” per fermare il flagello del Coronavirus e voleva impegnarsi a favore dei bambini poveri del mondo. Aveva anche augurato al Napoli di Gattuso di vincere lo scudetto. Sarebbe stato bellissimo e lui avrebbe cercato di essere presente alla festa. Invece non ha nemmeno fatto in tempo a vedere l’ultimo film che Paolo Sorrentino gli ha dedicato (titolo, manco a dirlo “La mano de Dios”) e a leggere il libro del suo fraterno amico Ciro Ferrara, “Ho visto Diego”, uscito per i suoi sessanta anni e per il quale il campione argentino aveva scritto la prefazione. Vedrà tutto da lassù. L’ultimo dribbling, quello per scansare la morte, non gli è riuscito.