-di Lorenzo Fabiano Della Valdonega–
Clamoroso al Tour. Qualcosa di simile accadde alla Grand Boucle del 1989: al via dell’ultima tappa, 24,5 chilometri a cronometro tra Versailles e i Campi Elisi a Parigi, Laurent Fignon partiva con 50 secondi di vantaggio su Greg Lemond. Li dissipò lungo il tracciato e perse la maglia gialla a favore dell’americano per l’inezia di 8 secondi; è ad oggi il minor distacco mai registrato nella classifica finale del Tour de France. Povero Fignon: quella legnata toccò proprio a lui che già ne aveva patita una simile cinque anni prima all’atto finale del Giro d’Italia quando alla sfida contro le lancette fu rullato da Francesco Moser all’Arena di Verona. Sembrava che quel ribaltone del 1989 potesse rimanere un caso unico e irripetibile nella storia della grande corsa francese. Soprattutto in tempi in cui il ciclismo si è fatto sempre più schematico, tabellare e le corse sempre più bloccate dai ritmi imposti dai luogotenenti delle squadre più forti a favore dei loro capitani. E invece un ragazzo sloveno di ventuno anni, Tadej Pogacar, la storia l’ha riscritta. E con tanto di valore aggiunto, secondo noi. Perché l’ha scritta da solo, con le proprie forze e il proprio coraggio. Sembrava tutto deciso, il derby sloveno; Primoz Roglic maglia gialla, Tadej Pogacar secondo; un piccolo paese alpino, senza alcuna tradizione, che ridisegna la geografia del pedale, sarebbe già stata una notizia. E chi l’avrebbe mai detto…! Siamo andati ben oltre. Roglic partiva con 57 secondi di margine, un tesoretto di tutta sicurezza da gestire. È accaduto l’imponderabile. Pogacar ha sparato tutte le cartucce che aveva, prendendo la via del rischiatutto: «O vinco, o salto». Non si è insomma accontentato; ci ha provato come del resto aveva sempre fatto sin dal primo giorno; mai domo, non si è piegato allo strapotere di una squadra, la Jumbo Visma, che la corsa l’ha blindata sin dalla partenza di Nizza; copia incolla di quanto faceva il treno del Team Sky negli anni d’oro quando scortava i vari Wiggins, Froome, Thomas e da ultimo Bernal. Una schiacciante dimostrazione di potenza. Risultato: corsa bloccata (da lì non si esce) e nessuna concessione allo spettacolo. La Visma ha fatto la stessa cosa, ma non ha fatto bene i conti con chi non he voleva sapere di firmare la resa. Così, il piano che sembrava ormai vincente, è saltato clamorosamente sulle rampe della cronoscalata a La Planche des Belles Filles, il Calvario di Roglic. Su quelle rampe, ciò che doveva essere per lui un trionfo, si è rivelato un martirio, metro dopo metro fino al crollo. La vittoria di Pogacar restituisce dopo anni al ciclismo ciò che è del ciclismo, quella porzione di umanesimo fatta di audacia, coraggio, spavalderia e una pedata ai calcoli. Ci mancava. L’uomo che sovverte tutto e ha la meglio sul computer. In un sabato pomeriggio che passerà alla storia il ciclismo ritrova quindi tutti gli ingredienti che lo rendono uno sport dal fascino unico. Pogacar da solo e senza una squadra a sostegno, ha attaccato i titani e li ha piegati. Impresa epica, ai giorni nostri. Ma questo Tour segna soprattutto la sconfitta, e speriamo la fine, di quel ciclismo schematico e programmato che domina la scena da decenni e nulla lascia alla fantasia: un’era aperta da Miguel Indurain, proseguita a suo modo (assai sporco) da Armstrong, e quindi dagli alfieri di Dave Brailsford al Team Sky. Il capitano in carrozza, e i soldatini a scortarlo. Fino alla noia. Uno solo in passato aveva spezzato archetipi ed egemonie facendo leva esclusivamente sulle proprie forze: Marco Pantani nel 1998. Pogacar ce lo ha ricordato, non tanto nella pedalata, ma certamente nel modo d’interpretare la corsa. Provarci sempre e comunque, poi sia quel che sia. Il bello del ciclismo è questo. Un ventunenne sloveno ce ne ha fatto riassaporare tutto il gusto. Grazie infinite Taddeo!