Sergio Zavoli era un personaggio unico. Un grande giornalista, un sommo dirigente Rai, uno stupendo scrittore che però era diventato famoso soprattutto per una sua geniale invenzione, il Processo alla Tappa in tv al Giro d’Italia, la sua creatura. Perché Sergio – credo di poterlo chiamare amichevolmente così, visto che eravamo molto amici – adorava in particolare il Giro d’Italia e il ciclismo, diceva che in quello scatolone c’era tutto della vita, che poi lui indagava, scrutava, analizzava, scopriva ogni giorno, inventandosi le interviste più bizzarre ai personaggi più strani.
Amava i gregari, gli umili, gli ultimi, poi certo parlava anche con i campioni, da Merckx a Gimondi, da Motta a Bitossi, ma più spesso si intratteneva con figure magari minori eppure secondo lui più suggestive, come Vito Taccone che fu il prototipo del polemista, o Dino Zandegù il vulcanico menestrello, e li invitava nella sua tribuna televisiva del Processo accanto a famosi giornalisti, come Indro Montanelli e Gianni Brera, o grandi scrittori, come Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. Lo spettacolo era assicurato e Sergio si divertiva come un matto anche se non lo dava mai a vedere e manteneva sempre un rigoroso aplomb professionale, dando sempre del “lei” ai suoi interlocutori.
Indelebile resterà nella storia del giornalismo il suo servizio nel Giro 1966 con Lucillo Lievore, umile gregario in fuga per inseguire un giorno di gloria, che Zavoli dal sellino posteriore di una moto intervistò durante la corsa. Era la tappa da Belluno a Vittorio Veneto del 6 giugno 1966. “Lievore, pensa di farcela?” gli chiese. “No, mi prendono, mi prendono! Mi viene da piangere…” fu la risposta del corridore vittima della fatica e dell’emozione. Eppure Sergio insistette: “Lievore, lei è fidanzato? Ma perché ha lasciato il suo lavoro sicuro, di muratore, per fare il corridore?”. Domande indiscrete me sempre poste con garbo, cortesia e grande rispetto, al punto che proprio in quell’occasione Zavoli non osò dire a Lievore che davanti a lui c’era ancora un altro fuggitivo, Pietro Scandelli, che infatti vinse quella tappa.
A Sergio, più delle vittorie e dei campioni, interessavano le storie, l’umanità e gli aneddoti che c’erano dietro ai corridori, gli piaceva scoprire i retroscena della vita della quale considerava il ciclismo come uno spaccato, un paradigma. E scelse anche me per realizzare il suo obiettivo, mandandomi in mezzo al gruppo durante il Giro con un registratore a tracolla e il microfono in mano per intervistare i corridori. Peccato che ero anch’io corridore di quelle stesse tappe, dunque dovevo fare le interviste nella prima parte della giornata, quando non era ancora scoppiata la bagarre, e poi restituire in fretta registratore e microfono per impegnarmi nella mia corsa. Alla fine della giornata, poi, mi invitava al Processo per commentare insieme le interviste.
Fu proprio Zavoli a consigliarmi di accettare l’offerta della Rai e di Pippo Baudo di condurre in tv il telequiz a puntate Ciao Mamma con Liana Orfei, un impegno che però dovetti interrompere per qualche settimana – fui sostituito temporaneamente da Alberto Lupo, un altro caro amico che non c’è più – quando partecipai al Mondiale del 1968 a Imola, che tra l’altro vinsi. Nel ciclismo di oggi sarebbe impossibile e sembra quasi incredibile che allora si potesse svolgere una doppia attività, dividendosi tra sport e spettacolo.
A Sergio mi ha sempre legato stima e amicizia, anche le nostre mogli si conoscevano e spesso andavamo in vacanza tutti insieme, ricordo una volta alle Bahamas e un’altra a New York. Loro non avevano figli e io a mia moglie insistemmo più volte per convincerli ad adottarne uno. Così arrivò una bimba, che Sergio e la moglie chiamarono Valentina perché – dissero – io, mia moglie Vitaliana e i nostri due figli Viviana e Vanni avevamo tutti nomi che iniziavano con la “V”. Un altro segno di stima.
Una cosa che mi aveva sempre stupito di Sergio era la sua continua ricerca della verità. Una volta mi intervistò per tre quarti d’ora, ma poi alla fine non fu contento e buttò via tutto il filmato: “Non mi hai detto la verità!” fu la sua motivazione. Io negai e lo assicurai del contrario, ma poi capii che aveva ragione lui: non ero stato sincero e lui se n’era accorto subito, anche prima di me. Un fuoriclasse assoluto, come persona e come giornalista, che viveva e lavorava sempre con grande rispetto e umiltà.
Ricordo che quando diventò presidente della Rai andai a trovarlo. “Buongiorno Presidente” gli dissi, e lui secco replicò: “Ma non prendermi in giro!”. Un’altra volta gli telefonai per chiedergli se sarebbe venuto a Parma per ritirare un premio che gli avevamo assegnato e lui, che pure non amava le cerimonie e i convenevoli, accettò volentieri. Partì in treno da Roma, venne a prendere il riconoscimento e poi mi disse di accompagnarlo in stazione, perché sarebbe tornato a dormire a casa. “Ma come? Non resti nemmeno un giorno?” gli dissi. “Sono venuto solo per te, non potevo dirti di no. Ma voglio tornare subito a casa” aggiunse.
Sergio Zavoli amava i valori di un tempo, quelli che aveva sempre cercato di raccontare ed esprimere nelle sue trasmissioni, nei suoi libri, in tutta la sua appassionata attività di cronista innamorato della vita. Il mondo del giornalismo e della cultura perde un personaggio unico e straordinario. E io anche un fratello.