-di Adalberto Scemma-
Per raccontare Alberto Brambilla, per raccontarlo “dal vero”, bisogna con una virgola d’ironia e due di piroettante improntitudine- affidarsi all’iperbole. Mi vengono in mente gli scalatori velleitari dell’Everest, quelli d’oggi, i pallidi epigoni di Edmund Hillary e Norgay Tenzing, quelli che salgono su in cima come in ascensore, spinti-sospinti dagli sherpa, seguendo ben visibili tracce di chiodi, picozze e ramponi già pronti per l’uso.
Perché dico questo? Facciamo conto che l’Everest, per adusata similitudine, rappresenti una vetta poetica, l’immagine folgorante di quel quid di sublime che fa esplodere il verso in cuore. Anche la poesia però, così come l’Everest, per essere percepita nella sua interezza, necessita di uno sherpa che sappia collocare-recuperare-delineare il percorso compiuto dal poeta fornendo al lettore ben precisi punti di riferimento. Uno sherpa chiamato filologo.
Non so fino a che punto il filologo Alberto Brambilla, “tuttocampista” della letteratura sportiva, accetti e condivida la didascalica limitazione d’immagine. Perché se è vero che i filologi si dividono paradossalmente in due categorie ben distinte (i viaggiatori in aerostato alla ricerca di un’elevata visione d’insieme e gli speleologi della critica votati a un’esplorazione analitica in profondità) è altrettanto vero che Brambilla appartiene per vocazione, studi e passione a entrambe le categorie. Di qui la scelta di definirlo con evidente ma compiaciuta forzatura d’immagine, un “tuttocampista” appropriandomi di un neologismo breriano che nel suo caso appare persino suggerito dalla consuetudine.
Domanda pleonastica: era proprio necessario, per raccontare l’incantevole itinerario di Vittorio Sereni nel pianeta sport, partire da un così sgomitolato preambolo? Risposta inequivoca: sì, lo era. Perché la visita guidata che il filologo-sherpa Alberto Brambilla propone per “Il verde sommerso in nerazzurri” (i tipi sono quelli elegantemente inusuali di Nomos) sdogana una volta di più, con sapiente equilibrio, l’antica querelle sulla letteratura sportiva che divise all’epoca (sono passati quasi sessant’anni!) il sussiegoso cattedratico Umberto Eco e il virulento fantasmagorico Gianni Brera a proposito del quale nessun critico, oggi, oserebbe parlare di “gaddismo spiegato al popolo”.
Fino a che punto, rileva Brambilla, è ancora proponibile la distinzione spinosa tra cultura cosiddetta alta (libresca) e cultura bassa (popolare)? Si trattava, all’epoca, di una questione tutt’altro che marginale, irrorata da una forte carica ideologica e da altrettanto significative istanze politiche, come imponeva l’invadente presenza di Eco. Neppure Flaiano, con il suo paradigmatico “terzo occhio” critico, era riuscito a dirimerla. E tuttavia, in uno scenario accademicamente stralunato, ecco consolidarsi, per un miracolistico processo d’osmosi, il gioco di squadra (interista) in contropiede di un gruppetto di sciamannati tifosi elitari: Vittorio Sereni, appunto, Cesare Garboli, Maurizio Cucchi, Franco Loi, Gino Negri o Giovanni Raboni, tutti protesi a infiammarsi per le imprese sportive sul filo di un’imprescindibile esigenza personale evitando d’acchito qualsiasi esercizio intellettuale. La via più diretta per assegnare allo sport (e di conseguenza alla letteratura sportiva) una capacità d’innesco di vibratile immediatezza, alla faccia degli arzigogoli pretestuosi di una critica ghettizzante a prescindere. Si deve proprio a Vittorio Sereni, e alla sua umile ma intensa percezione di spazi creativi inusuali, la capacità di intuire nella suggestione agonistica, quella di un calcio popolare al punto da diventare ecumenico, la presenza di un materiale altamente poetico perché “privo di peso”, calato senza sforzo nella sua dimensione quotidiana.
Come fa uno che scrive, che ha letto certi libri, un intellettuale, ad appassionarsi, a prendere sul serio la partita della domenica e i campioni del pallone? Sereni si pone la domanda e fornisce d’impeto la risposta nelle pagine in prosa de “Il fantasma nerazzurro”: “Non credo che esista un altro spettacolo sportivo capace, come questo, di offrire un riscontro alla verità dell’esistenza, di specchiarla o piuttosto rappresentarla nel suo andirivieni, nei suoi imprevisti, nei suoi rovesciamenti e contraccolpi; e persino nelle sue stasi e ripetizioni; al limite, nella sua monotonia. La passione che li accompagna muore nelle ceneri di un tardo pomeriggio domenicale e da queste, di domenica in domenica, non si sa come, risorge”.
Èstrategica in queste poche righe, osserva Brambilla, la presenza di termini come “passione”, “cenere” o “tardo pomeriggio domenicale” diventati consuetudinari nella poesia di Sereni che tuttavia, anziché preoccuparsi di legittimare o meno la domanda iniziale, utilizza come volano il metro della propria esperienza personale, quella cioè di tifoso interista. E qui si percepisce, nell’elaborazione filologica di questo prezioso “Il verde sommerso in nerazzurri”, anche l’adesione di Brambilla a un percorso di solare naturalezza espressiva, quello che non a caso lo ha portato a ispezionare in tempi recenti le digressioni di Umberto Saba nel mondo dello sport (le “Cinque poesie per il gioco del calcio”) facendone il prodromo ideale di questo suo ben più ampio e articolato viaggio dell’anima lungo l’itinerario di Vittorio Sereni.
Le tre distinte parti di questo itinerario “in costante dialogo”, al punto da formare un tutto organico, forniscono in effetti con dovizie di preziosi particolari anche la testimonianza di come Brambilla procede in quella sua lunga ricerca dedicata al rapporto sport-scrittura, tema colpevolmente quasi ignorato dalla critica accademica o comunque tollerato “con un certo sospetto”. Sereni diventa per naturale adesione il testimonial più accreditato attraverso la proposta di scritti elaborati tra il 1947 e il 1983.
A una prima parte dedicata ai percorsi poetici (“Il verde è sommerso in nerazzurri/Ma le zebre venute di Piemonte/sormontano riscosse a un hallalì/squillato dietro barriere di folla…), segue una seconda parte che raccoglie i testi in prosa, quasi sempre intesi come una riserva aurea, un esemplare forziere d’immagini cui attingere nei momenti di più ispirata connessione poetica. Un grande e faticoso ma imprescindibile lavoro di artigianato, che è tale anche quando emerge dagli articoli redatti per “Illustrazione ticinese”, per la prima volta raccolti in volume a testimoniare la specifica competenza di Sereni in almeno tre direzioni: il calcio interista, naturalmente, ma anche il ciclismo di fede coppiana e persino il pugilato, inteso in una sua sofferta dimensione epica (“Guarda invece il vecchio fighter sul quadrato/guardia destra o sinistra, vecchia volpe/ abbagliata di città, come muove al massacro…). Sono testi d’indole leggera, proposti in una veloce scrittura-struttura giornalistica ma non per questo meno suggestivi se è vero che basta una minima sollecitazione agonistica ad accendere la miccia della fantasia. Di qui quel forziere d’immagini cui fa riferimento Brambilla per l’innesco poetico.
Infine la terza parte che compendia gli scritti d’alta caratura espressiva dedicati agli eventi sportivi e ai suoi protagonisti più conclamati, a cominciare dall’immarcescibile Peppino Meazza con le sue “incursioni oblique dentro l’area a un’andatura da locomotiva snella e silenziosa”. Tra tutti spicca “Il fantasma nerazzurro”, dove l’epopea interista ha l’impronta di Meazza ma elenca anche altri giocatori capaci di lasciare una traccia non banale, da Castellazzi a Campatelli fino al Giuliano Sarti della saga morattiana. Ma proprio in questa dimensione, analizzando gli scritti degli anni Settanta, emerge la prova documentata della capacità di Sereni di fornire con competenza critica non soltanto la lettura analitica di una partita di calcio (non so cosa ne pensasse Brera, di certo non male!) ma anche, e soprattutto, di addentrarsi con sapienza nella valutazione in prospettiva dei suoi interpreti (vedasi la scommessa “al buio” sul giovanissimo Bergomi).
Il viaggio dell’anima sulle tracce di Sereni, al di là di quella indubitabile componente epica insita nelle vicende sportive, è tale tuttavia anche per quel brillio sentimentale che agli occhi di Brambilla emana dalle componenti di vita luinesi, lungo un percorso che lui stesso ha condiviso approcciando Piero Chiara nel volume antologico (“Lo Zanzi, il Binda e altre storie su de ruote” uscito sempre per Nomos nel 2013). C’è una ragione apparentemente banale che possiede tuttavia un significato sciamanico evocativo: Brambilla ha casa lungo quella “strada di Zenna” che compare nell’antologia poetica di Sereni con accenti di fatidica nostalgia e che evoca iridescenti immagini frontaliere “nei sogni di pallidi volti feroci”. Luino concede però agli occhi della memoria anche l’ipnotica presenza del lago. Una lentissima percezione ammaliata che Brambilla deve aver colto in sintonia con Sereni perché ci sono momenti, lungo l’asse della sua narrazione filologica, in cui anche il linguaggio critico assume una cadenza espressiva dai ritmi dolcemente lirici. Luino si distende e respira nei colori, come racconta Sereni, ma Brambilla sa coglierne il cuore “se nell’alto silenzio lo commuove/ un bisbiglio di gente per le strade”.