–di Lorenzo D’Ilario–
Se il Giro d’Italia è stato rinviato ad ottobre e le grandi classiche del ciclismo italiano sono state posticipate ai mesi estivi e autunnali a causa dell’emergenza sanitaria legata al COVID-19, la stessa sorte non è toccata al Gran Premio della Liberazione. La storica corsa di ciclismo per under 23, dunque, per il secondo anno consecutivo non si disputerà.
Dopo i problemi economici che ne hanno impedito l’organizzazione nel 2019, stavolta è sopraggiunta una pandemia ad interrompere una tradizione che andava avanti dal lontano 1946. Da quell’anno in poi, infatti, ogni 25 aprile, nel suggestivo circuito romano delle Terme di Caracalla è andata in scena una manifestazione capace di unire storia e sport, diventando un appuntamento tradizionale del ciclismo italiano tanto da essere denominato il “Mondiale di primavera”.
Nell’ultimo decennio il Gran Premio della Liberazione ha lanciato campioni del ciclismo azzurro (Matteo Trentin, Alberto Bettiol, Sacha Modolo, Enrico Barbin, Michele Boaro e Sonny Colbrelli) e internazionale (su tutti, l’australiano Michael Matthews). Andando a ritroso negli anni, proprio a seguito della partecipazione a questa manifestazione è iniziata la carriera di atleti entrati nella storia come Francesco Moser, Gianni Bugno, Mario Cipollini e il compianto Michele Scarponi. Ad aggiudicarsi l’ultima edizione, che si è tenuta nel 2018, è stato l’italiano Alessandro Fedeli, non a caso passato tra i professionisti nella stagione successiva.
Ma il Gran Premio della Liberazione non rappresenta soltanto una vetrina prestigiosa per quei giovani talenti che sognano di diventare professionisti. Al di là dell’aspetto competitivo, infatti, è innegabile l’altissimo valore civile per il nostro Paese di un evento che per 73 anni consecutivi ha rivestito la Festa della Liberazione con i colori del ciclismo. La corsa è nata nel periodo storico in cui nelle ruote dei ciclisti correva la rinascita dell’Italia, che poneva i primi decisivi passi per lasciarsi alle spalle i drammatici eventi della Seconda Guerra Mondiale e tracciare la rotta di un futuro di pace e democrazia.
Coraggio, senso di appartenenza, rispetto, integrazione e solidarietà. Sono questi i valori che si concentrano nei sei chilometri del circuito romano, carichi di significati storici e culturali, di emozioni e sentimenti che uniscono libertà e sport, oltre che la passione e il talento dei migliori ciclisti under 23 provenienti da tutto il mondo.
A testimonianza del contributo fondamentale che le donne hanno apportato alla Resistenza, amplificando ulteriormente il valore civile e sportivo dell’evento, a partire dal 2016 si è deciso di affiancare alla corsa maschile anche il Gran Premio della Liberazione Pink: le prime due edizioni hanno visto l’affermazione di Marta Bastianelli, mentre l’ultima, nel 2018, ha consacrato il talento di Letizia Paternoster, autentico astro nascente del ciclismo su pista e su strada.
Purtroppo, a prescindere dall’insorgere della pandemia che ha portato per il secondo anno consecutivo all’inevitabile cancellazione della gara maschile e femminile, l’organizzazione del Gran Premio della Liberazione 2020, a cura della collaborazione tra la Velo Club Primavera Ciclistica del presidente Andrea Novelli e la Cicli Lazzaretti, procedeva tra mille difficoltà a causa dei noti problemi economici. La Federciclismo, guidata dal presidente Renato Di Rocco, si è dimostrata sempre molto vicina alla richiesta di aiuto degli organizzatori che da soli non riescono più a far fronte alle ingenti spese. Ma questo, con ogni probabilità, non sarebbe bastato ugualmente a salvare la corsa. Pertanto, sarebbe auspicabile che le istituzioni governative prendessero maggiormente a cuore la vicenda perché il Gran Premio della Liberazione è stato per decenni un simbolo sacro dello sport italiano e tale sarebbe opportuno che rimanga.
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