Redazione Gianni Brera
-Quando Maurizio Iorio salì in cattedra con Bragagnolo–
di Alessandro Fontana
Questa è una storia di déjà-vu. Una di quelle storie dove alla fine tutto torna, e dove tutti i pezzi si incastrano per dare forma compiuta al fluire dei ricordi. Una storia come tante, una di quelle con cui si prova a raccontare la Storia con la esse maiuscola.
Una testimonianza per immortalare caotici frammenti da consegnare a imperitura memoria. Seguendo il sottile filo rosso che lega due personaggi solo all’apparenza diversi come Walter Bragagnolo e Maurizio Iorio. Ad unirli la passione, la tenacia e il talento con cui entrambi hanno perseguito i propri obiettivi, ottenendo grandi riconoscimenti sia in patria che all’estero.
E con cui hanno regalato alla città di Verona pagine indimenticabili di sport. Giocato (su un campo da calcio) e studiato (nelle aule dell’Università).
La storia inizia proprio in riva all’Adige. Andai allo stadio Bentegodi per la prima volta nella primavera del 1985. Il 24 marzo. Data a cui per ovvie ragioni anagrafiche (avevo 5 anni), sono risalito solo a posteriori. Non ricordavo il giorno esatto, ricordo benissimo invece che era una splendida giornata di sole. Ero con mio padre. Il lanciatissimo Verona di Osvaldo Bagnoli riceve la Cremonese fanalino di coda. Una formalità, finisce 3-0, ma di quella partita ricordo più di ogni altra cosa la gioia e la spensieratezza. Quelle che può provare un bambino alla sua prima esperienza da tifoso.
Ero in sintonia totale, troppo piccolo per capire esattamente cosa stesse succedendo in campo, ma sufficientemente “grande” perché certi momenti restassero scolpiti per sempre nella mia memoria, anche oggi a distanza di 35 anni. Come l’immagine di un gigantesco striscione che prima del fischio d’inizio passa sopra la mia testa e filtra la luce del sole con i suoi colori talmente vividi che se chiudo gli occhi posso ancora rivedere il fermo immagine di quel preciso momento. È l’unico ricordo esatto che ho di quella giornata, della partita nulla. Zero totale.
Ma lì nacque la mia passione per il Verona. Ho sempre pensato che fosse un onore e un privilegio poter dire di essere andato al Bentegodi l’anno dello scudetto. Anch’io nel mio piccolo ho qualcosa da raccontare di quella meravigliosa favola! I ricordi diventano sempre più nitidi a partire dalla stagione successiva, ero un bambino ma il risultato della partita già incideva sul mio umore. La stagione con lo scudetto sul petto non fu esaltante, grandi soddisfazioni i due anni successivi, quarto posto e qualificazione alla Coppa Uefa e poi l’esaltante avventura europea fino all’ultima notte in Germania, ancora Ovest, al Weser Stadion di Brema. Quell’eliminazione lasciò una cicatrice indelebile nel mio cuore di tifoso, seconda solo alla retrocessione di Cesena nel 1990. Ero in camera mia, eccezionalmente fuori tempo massimo rispetto all’orario in cui si doveva andare a dormire, ma per quella serata speciale i miei genitori mi avevano concesso di restare sveglio per ascoltarla alla radio. Sulle frequenze di Radio Adige, col commento di Roberto Puliero. All’andata perdiamo 1-0. Al ritorno andiamo sotto con un gol assurdo da centrocampo. Nel secondo tempo pareggiamo con Volpecina. Poi l’assalto finale. Vano. Il sogno finisce nella fredda sera di Brema.
Stavo malissimo, sensazione indimenticabile, una delusione mai provata prima. Avevo 8 anni, ma ero già follemente innamorato di questa squadra. Alle elementari non mancavano gli sfottò, io e un altro compagno di classe eravamo accaniti dell’Hellas, poi c’erano i milanisti e gli interisti. Juventini non ne ricordo. Era la fine anni 80, il Milan di Sacchi e dei tre olandesi regalava spettacolo, il Napoli di Maradona vinceva il suo primo scudetto bissando il successo tre anni dopo, con l’Inter di Trapattoni, Brehme e Mattheus a fare da terzo incomodo, anche se solo fugacemente con la conquista del 13° scudetto nell’89. Loro erano le rivali da battere, e il Verona se la giocava alla pari. Un po’ indietro, ma sempre in grado di togliersi belle soddisfazioni. Era forte quel Verona. Ed era la cosa più naturale del mondo tifarlo. Non capivo come si potesse tifare squadre di altre città, e al lunedì era uno spasso schernirsi con i compagni di classe per una vittoria o una sconfitta. Non vincevamo tanto, ma non importava. Tifare Hellas mi bastava. Era una scelta controcorrente e al tempo stesso ovvia. Quella squadra era diventata una seconda pelle.
Ad eccezione di Elkjaer e Zigoni, il tifoso dell’Hellas non ha mai idolatrato i giocatori. Ci si è spesso affezionato a prescindere dalla categoria o dalle qualità tecniche, ma non è mai entrato troppo nella sua privacy. Chi è stato a Verona da calciatore ha sempre potuto “vivere” la città, entrando nei suoi angoli più affascinanti e nascosti, facendosi rapire dalla magia senza tempo del passeggiare per le vie del centro. Dove spesso si scambiano due battute con i tifosi e spesso nasce una sottile complicità. Che resta per sempre.
Maurizio Iorio a Verona c’è stato solo due anni, neanche consecutivi, ma tanto è bastato per entrare nella storia del club e nel cuore dei tifosi.
Scintille prima dell’apoteosi
Attaccante di grande talento, esplode nel Bari allenato da Enrico Catuzzi, uno che credeva nei giovani e sapeva responsabilizzarli. Dopo due anni passa alla Roma, una stagione per vincere lo scudetto e poi l’arrivo a Verona in comproprietà. Non l’ho mai visto giocare con quella splendida maglia Adidas sponsorizzata Canon (che per me resta la migliore in assoluto…), ma l’eco delle sue gesta nelle arene calcistiche dello Stivale lo fece entrare nel mio personale novero dei grandi dell’Hellas.
Iorio-Galderisi. L’anno prima dello scudetto erano loro gli attaccanti titolari. I Puffi al Tritolo, li aveva battezzati Adalberto Scemma, che all’epoca era caporedattore allo Sport del giornale L’Arena. <<Sono rapidi, guizzanti, due bisce sempre pronte a colpire.>> scrive Furio Zara nel suo libro Ma è successo davvero? 12 Maggio 1985: Hellas Verona Campione d’Italia. La storia dello scudetto più incredibile del calcio italiano. <<Iorio quell’anno chiude a quota 14 reti – continua – primo italiano nella classifica dei marcatori dopo due mostri sacri come Michel Platini (che vince con 20 reti) e Zico (19 reti). Iorio si lascia alle spalle attaccanti del calibro di Paolo Rossi (Juventus), Daniel Bertoni e Paolo Monelli (Fiorentina), Sandro Altobelli (Inter), Pietro Paolo Virdis (Udinese), Massimo Briaschi (Genoa), Bruno Giordano e Michael Laudrup (Lazio), Roberto Pruzzo (Roma). Anche in coppa Italia il ragazzo segna con una certa continuità e chiude con un bottino personale di 7 reti, secondo miglior marcatore della competizione. A conti fatti sarà questa in gialloblù la miglior stagione della sua carriera>>[1].
Le nostre strade di calciatore e di giovane tifoso in erba, che si erano solo sfiorate in quella stagione 1983-84, giusto un anno prima dello scudetto, si incrociano nella stagione 1989-90. 3 reti in 24 presenze nell’ultimo Hellas di Bagnoli. Società in grave difficoltà economica, la squadra stenta e i fasti dello scudetto vinto solo cinque anni prima uno sbiadito ricordo. La retrocessione incombe minacciosa dopo 8 stagioni consecutive in serie A (miglior striscia consecutiva di sempre). L’Osvaldo sta per fare un altro miracolo, il Verona resta in corsa fino all’ultima giornata. Vincendo a Cesena ci si salva.
Ma a 10’ dalla fine il Condor Agostini ci condanna.
Sotto il sole della riviera romagnola terminò una ciclo indimenticabile. Ma io mi affezionai tantissimo a quella squadra di carneadi e vecchie glorie, perché non smise mai di lottare, rischiando di sovvertire ogni previsione. Che ad inizio stagione davano il Verona praticamente spacciato, ancor prima di cominciare.
Dopo trent’anni i ricordi sono ancora vivi. E quando in piena pandemia da COVID-19, Adalberto Scemma (che per inciso è nato lo stesso giorno di Iorio, visto che questa è una di quelle storie in cui tutti i pezzi si incastrano) mi chiese se avessi voluto scrivere un capitolo del libro dedicato al Professor Walter Bragagnolo, intervistando Maurizio Iorio, subito tornai con la memoria agli anni di Bagnoli, alla mia infanzia, all’amore probabilmente ineguagliabile che provai per quell’Hellas.
Perché questa è una storia di déjà-vu.
I pezzi iniziano a ricomporsi. Frammenti di memoria danno forma a un ricordo. Mi sento lusingato. Maurizio Iorio è uno di quei giocatori entrati di diritto nella storia del club. E nel cuore dei tifosi. Potermi confrontare con lui e farmi raccontare come è nato il suo bellissimo rapporto col professor Bragagnolo mi affascina e incuriosisce al tempo stesso.
Chi troverò dall’altra parte del telefono?
Sono curioso.
Nella mia seppur breve carriera di giornalista sportivo ho fatto parecchie interviste. Ma salvo rare eccezioni gli argomenti di conversazione quasi sempre riguardavano la partita appena terminata.
Questa volta è diverso. Si parlerà di sport, ovvio, ma solo marginalmente. Fermo restando che questa è una storia di sport, o meglio è una storia che nasce dalla passione per lo sport, la stessa che in forme diverse accomuna me, Maurizio Iorio e il Professor Bragagnolo. Quella di Iorio è una testimonianza appassionata, una dichiarazione d’amore per la città di Verona e al tempo stesso un ricordo fulgido ed emozionato del Profe. A cui era legato da uno splendido rapporto di stima ed amicizia nato proprio negli anni in cui al timone della nave c’era Bagnoli, che con il Profe aveva uno stretto rapporto professionale.
<<Quelli di Verona sono stati anni bellissimi. Unici. Avevo anche scritto una lettera, poi pubblicata, che era la mia personale dichiarazione d’amore per Verona e i veronesi. Gente riservatissima, che ti permette di vivere la tua privacy e la tua vita pur essendo un personaggio pubblico, ma allo stesso tempo generosa e passionale, che non ti fa mancare nulla. Quando da calciatore hai la fortuna di essere amato, come lo sono stato io a Verona, col tempo diventi parte integrante di quella realtà e di quella maglia. Anche a distanza di anni. In qualsiasi parte d’Italia o del mondo, quando trovo un tifoso dell’Hellas, immediatamente scatta la scintilla. Io ho avuto la fortuna di fare alcune lezioni all’Università, col professor Bragagnolo e con Adalberto Scemma. Sono state esperienze molto belle, intense, produttive che hanno arricchito la mia persona. Verona è una realtà organizzata, con delle strutture. Questa la prima differenza importante con altre città in cui ho vissuto. In ambito sportivo il sistema funziona, e ti permette di lavorare con tranquillità anche quando sei sotto pressione. Una volta terminata la partita noi calciatori tornavamo a fare una vita normale, e avevamo i nostri spazi. Finiva tutto al fischio dell’arbitro, applausi o insulti che fossero, anche se durante quegli anni per fortuna furono molti di più gli applausi. Per quello che riguarda Bagnoli…Beh, è stato il miglior allenatore che abbia avuto, sia sotto l’aspetto tecnico sia dal punto di vista umano. Pur essendo un taciturno era una persona profonda, molto profonda. Poche chiacchiere, tanti fatti. Come piace a me. Con lui si arrivava subito al dunque e ti faceva sempre sentire a tuo agio. Se ti prendeva in simpatia ti voleva veramente bene. Con i giocatori ci sapeva fare, era molto attento a tutto, anche all’aspetto umano. Una persona straordinaria, siamo stati insieme anche al Genoa e i ricordi delle esperienze vissute insieme sono di altissimo livello.>>
Bagnoli era molto legato al Professor Bragagnolo, al punto da avere utilizzato i suoi assistenti (Angelo Sguazzero prima e Adelio Diamante poi) come preparatori atletici del Verona.
Il mondo del calcio ha sempre guardato con sospetto chi proponeva regole nuove che mettevano in discussione i criteri di allenamento già consolidati. Anche Bragagnolo ha dovuto affrontare a Coverciano le critiche dei “conservatori”. Poi grazie soprattutto a Guidolin (con Diamante preparatore), Cagni (con Ambrosio), Pioli (con Osti), Tesser (con Tito), Ficcadenti (con Perondi) e Donadoni (con Andreini preparatore e Bucci allenatore dei portieri) il sistema proposto da Bragagnolo (il metodo M.A.E.) ha cominciato a trovare spazio anche nel calcio. Pochi personaggi come il Profe sono stati capaci di introdurre novità scientifiche così significative nel calcio.
<< Mi ricordo che durante una splendida tournee in Giappone, ero già a fine carriera, un paio di sere che non si riusciva a prender sonno per il jet lag, uscimmo a camminare insieme e rimasi affascinato dai suoi discorsi. Anche se devo confessare che, per quanto fossero delle intuizioni veramente all’avanguardia, io personalmente facevo fatica ad applicarle al mondo del calcio. Ma per un motivo molto semplice: non avevo mai avuto la possibilità, e se vogliamo la fortuna, di allenarmi con quel tipo di metodo che poi i tecnici sopra citati hanno invece applicato con ottimi risultati. Ho avuto la fortuna di incontrare grandi allenatori, quello si, degli innovatori come Bragagnolo. Anche se più sotto l’aspetto tecnico che non “scientifico”. Penso ad Enrico Catuzzi e Sven Goran Eriksson. Soprattutto Eriksson, che già ad inizio anni 80 proponeva esercizi specifici sul pressing, quando ancora non si sapeva che cosa volesse dire. Questi esercizi avevano delle finalità ben precise, e i risultati del lavoro svolto con grande sistematicità durante la settimana si vedevano la domenica in partita, nella capacità di coprire il campo e di attaccare gli spazi. Se una certa metodologia oggi è considerata normale, molto lo si deve al Professor Bragagnolo.>>
La tournee in Giappone cui Iorio aveva accennato, fu una tappa fondamentale nel suo rapporto col Profe:
<<Quella trasferta con una squadra di ex calciatori italiani fu un’esperienza meravigliosa. Eravamo lì in rappresentanza della Regione Veneto e lui mi volle al suo fianco, anche perché tra l’altro ero l’unico, o uno dei pochi, che parlava bene inglese. Facemmo 16 giorni tra Fukuoka, Oita ed altre città del Giappone. Era il 1995, da un paio d’anni avevo chiuso la mia carriera da professionista. Fu una bellissima esperienza di vita, di cultura e di apprendimento, che mi servì moltissimo per preparare il mio futuro professionale ed imprenditoriale nel Beach Soccer. Dove più che scendere in campo, sono portato a dirigere ed organizzare. E Bragagnolo già all’epoca lo aveva capito, dimostrando anche lì di vederci lontano.
Quasi tutte le mattine c’era una conferenza o una lezione, in cui illustrava il suo metodo. C’erano sempre tantissime persone, grande attenzione, centinaia di domande. Un’esperienza bellissima. Eravamo io, lui e Adalberto Scemma. Poi c’era uno chef di Villafranca, molto famoso in Giappone, quello che aveva organizzato il tutto, e l’interprete. Eravamo sempre noi cinque. Di Bragagnolo mi colpiva la cultura. Sapeva tutto. Era una persona veramente piacevole, di grandissimo spessore umano e di altissimo livello culturale. E di qualsiasi cosa si parlasse, riusciva sempre a intavolare discorsi molto interessanti, mai banali, che ti tenevano incollato alla sedia. Tra di noi c’era molto feeling, eravamo due caratteri simili, a entrambi piaceva ridere e scherzare. Il nostro era un rapporto di vera amicizia, slegato dal tradizionale vincolo allenatore-atleta. Io ho avuto la fortuna di conoscerlo più dal punto di vista umano che non in veste di allenatore o professore. La complicità e la spontaneità che c’era tra di noi credo derivasse proprio dal fatto che ci relazionassimo alla pari, sullo stesso livello.
Quegli incontri, quegli approfondimenti, erano di altissimo livello. Quindi non faticai a credere che il Giappone ci avrebbe messo pochissimo tempo ad adottare il suo metodo.>>
Dopo quella tournée infatti il paese del Sol Levante è stato il primo ad acquisire il metodo M.A.E. , basato sull’amplificazione dell’errore. Tutto partì da quella conferenza di Bragagnolo all’Università di Fukuoka a 120 allenatori giapponesi. Il resto è storia recente. La nazionale di calcio giapponese ha acquisito sempre maggior credibilità e nel 2018 ha partecipato per la sesta edizione consecutiva (la prima a Francia 98) alla fase finale della Coppa del Mondo. E anche a livello di beach soccer sta facendo passi da gigante:
<<Quella giapponese è una nazionale tosta, ben attrezzata, forte fisicamente ed atleticamente. Una bella squadra. Agli ultimi mondiali del 2019 in Paraguay sono arrivati quarti perdendo in semifinale dal Portogallo, che poi si è laureato campione. Tra l’altro hanno integrato nella squadra dei brasiliani naturalizzati, e questo ha permesso di alzare ancora di più il tasso tecnico della squadra.>>
A noi, che fondamentalmente siamo ancora degli inguaribili romantici, piace pensare che tutto questo sia anche merito del Profe.
L’esplosione del beach Soccer in Estremo Oriente è il coronamento di un viaggio iniziato nei primi anni Novanta. All’epoca era uno sport cui di riflesso si associavano (con rarissime eccezioni) il Brasile e le sue spiagge. Maurizio Iorio inizia a praticarlo a fine carriera, quando anche in Italia l’attività diventa ufficiale all’interno della Federazione. Con tanto di Nazionale. Iorio ha le caratteristiche giuste per eccellere anche nel beach soccer, e nel 1995 viene convocato in azzurro per il primo Mondiale. Dove esalta le sue doti atletiche, la rapidità e l’istinto ancor rapace del gol, e al tempo stesso comincia a pianificare la sua attività da manager, diventando referente per la promozione del beach soccer in Europa. Qualche anno dopo insieme a Beppe Cormio, attuale direttore sportivo della Lube Volley Civitanova, inizia la sua attività imprenditoriale. Grazie alle spiccati doti organizzative e alla capacità di coinvolgere grandi campioni del calcio, il movimento prende sempre più piede e nelle arene estive il pubblico si esalta ammirando le gesta acrobatiche dei loro ex beniamini, ma anche di illustri sconosciuti dal fulgido talento. Un mix vincente. Grandi del passato e campioni del presente. Nel 1999 Iorio crea l’IBS, Italia Beach Soccer, selezionando i giocatori che prendono parte al campionato continentale della Beach Soccer European Golden League. Marchegiani, Pagliuca, Baresi, Bergomi, Ganz, Di Canio e Moriero solo per citare alcuni tra coloro che negli ultimi anni si sono esibiti con la maglia azzurra.
Le qualità imprenditoriali di Iorio denotano uno straordinario eclettismo. La capacità di coinvolgere le persone riuscendo a fare della propria passione una professione non è dote da tutti. Come non lo è quasi per nessuno quella che Madre Natura ha regalato a Iorio. Una dote rarissima, si chiama mirror speaking, cioè la capacità di parlare al contrario. Ogni segnale che arriva al nostro cervello produce due immagini, una normale e una al contrario. La maggior parte delle persone registra le informazioni nell’emisfero sinistro, quello deputato al linguaggio, mentre chi parla al contrario ha una maggior capacità di espressione dell’emisfero destro, la parte deputata a sopprimere la percezione del contrario. A Firenze, dopo un allenamento, per scherzo iniziò a parlare al contrario con i compagni. Eriksson lo sentì e chiamò in tutta fretta il medico sociale preoccupato del fatto che Iorio potesse aver preso una botta in testa e stesse accusando qualche scompenso neurologico.
Morale della favola: ricovero in ospedale e accertamenti clinici del caso. Finché un professore esperto di mirror speaking non garantì che il ragazzo stava benissimo e che poteva essere dimesso perché non sussisteva alcun problema. Questa sua capacità di parlare al contrario è una delle cose che ha rinsaldato il legame con Bragagnolo, il quale ha portato avanti studi avanzatissimi sul cervello ed è stato il primo in Italia a certificare nel mondo dello sport gli effetti dei neuroni a specchio.
<< Ricordo una conferenza-incontro alla Facoltà di Medicina di Verona. Adalberto Scemma era il moderatore, mi presentò a questa platea di scienziati. Molti mi riconoscevano come Iorio calciatore, e quando iniziai a parlare al contrario fu uno shock per tutti. Adalberto lo può confermare, ho visto scendere dottori e scienziati dalla ventesima fila per venire sotto il palco a farmi delle domande. Cui sinceramente non sapevo rispondere. Ho imparato a conviverci con gli anni, da bambino non ho particolari ricordi del parlare al contrario, oggi se passeggio per strada potrei leggere al contrario quello che c’è scritto su un’insegna. Senza nessun problema. La cosa colpì molto anche il Professor Bragagnolo, e ricordo benissimo come durante un pranzo in un bellissimo locale dalle parti di Ponte Pietra, mi sembra proprio prima di una lezione all’Università di Verona, parlasse di questa dote associandola al mio modo di giocare, alla mia reattività e a come stavo in campo. Non vorrei addentrarmi nei dettagli tecnici, perché sono argomenti che solo gli esperti possono padroneggiare con cognizione di causa, ma lì fui io a rimanere veramente affascinato dalla capacità del Professor Bragagnolo di saper associare i meccanismi imperscrutabili della mente allo sport e al movimento. Lui era tutto questo, un vero uomo di cultura e di scienza.>>
La storia finisce qui. L’ultima immagine, l’ultimo tassello di un mosaico che si è finalmente mostrato nella sua interezza, è quella di un convivio tra amici fraterni, accomunati da una grande passione e dall’aver condiviso meravigliose esperienze di vita. Che resteranno per sempre, anche nella memoria di chi come il sottoscritto, pur non avendo avuto la fortuna di viverle, ha avuto il privilegio di poterle raccontare.
[1] Furio Zara, Ma è successo davvero? 12 Maggio 1985: Hellas Verona campione d’Italia. La storia dello scudetto più incredibile del calcio italiano, Lit Edizioni Srl, 2015.