-di Massimo Rosa–
“Era tanta la voglia di divertirmi e, come me, tutti gli altri, racconta il Caina, che non appena avevo terminato l’allenamento col Verona, correvo, sul far delle 6 del pomeriggio, alla Vasca. E lì eravamo in tanti a voler giocare, obbligandoci a fare più squadre se volevamo divertirci, senza tralasciar alcuno”.
Nell’arco di tempo di circa un decennio da questo mito d’antan sono transitati molti ragazzi che rispondono al nome di Mariolino Corso, Giorgio Maioli, e lo stesso Mascalaito, tanto per citarne alcuni, che di lì a poco avrebbero calcato palcoscenici calcistici mai sperati. “Anche se in fondo al cuore di ognuno– continua- sono sicuro sia rimasto quello stadio più bello: “la Vasca”, da dove hanno iniziato a calpestare il palcoscenico della loro vita calcistica”. (Da Sport & Protagonisti del XX secolo veronese)
Questo è uno spaccato di vita di quegli anni ‘50/’60 in cui Mariolino Corso ne è stato protagonista, ragazzo tra i ragazzi, con le sue magiche giocate prima di vestire la maglia nerazzurra alla Scala del calcio, vincendo titoli a man bassa in quell’Inter insuperabile del mago Herrera e del grande presidente Moratti.
Mario Corso era nato a San Michele Extra, allora frazione di Verona, il 25 agosto 1941. Aveva dato i primi calci nell’Azzurra, una delle più forti società del settore giovanile di Verona, con il campo nel vallo dei bastioni.
Il giovane mancino era stato notato dall’Audace San Michele, a quel tempo la seconda squadra della città scaligera, che se lo portò a casa. Nelle fila giovanili audacine confermava le proprie qualità tanto da essere adocchiato ed acquistato nientechemeno dall’Inter. Assieme a Mario fecero i bagagli anche i compagni Claudio Guglielmoni e Mario Dal Pozzo, mezzala il primo portiere il secondo, per la roboante cifra di 9 milioni di lire. Primo stipendio 70mila lire al mese.
Mariolino, così era comunemente chiamato, era un cultore di Omar Sivori, mancino e fantasioso come lui, tanto che in omaggio al Cabezon portava i calzettoni arrotolati sulle caviglie.
Divenne soprattutto famoso per la sua capacità balistica della “Foglia morta”, un tiro ad effetto carico di veleno che diveniva imprendibile per il malcapitato portiere avversario, risolutore di tante partite.
Estro e fantasia gli regalarono il soprannome di Mandrake. E come tutti gli artisti della pelota anche il nostro campione preferiva fare correre la palla piuttosto che macinare chilometri. Così l’impietoso Gianni Brera lo definì:” Participio passato del verbo correre”. Sulle spalle aveva impresso l’11, numero che spettava a tutte le ali sinistre. Ma per lui ciò era ininfluente poiché, preveggente, spesso si posizionava sulla fascia destra per poi convergere verso il centro, scaricando così a rete tiri spesso imprendibili.
Con la maglia nerazzurra tra il 1963 ed il 1971 conquistò 4 scudetti, 2 Coppe Campioni e due Coppe Intercontinentali.
Mariolino Corso se ne è andato in punta di piedi da persona schiva qual era nella quotidianità della sua vita. Di lui resta il ricordo di quella “Foglia morta”, divenuto il suo marchio di fabbrica senza tempo, che ancora oggi furoreggia in tutti i campi del mondo.
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