Quando conosci una persona da una vita, la prima battuta che ti viene in mente è più o meno questa: “potrei scrivere un romanzo”. Ma se quella persona è un amico di con la “A” maiuscola, e viene inghiottito da un agguato del destino a soli 58 anni, la notizia è di quelle che ti arrivano addosso come una coltellata a tradimento, ti lasciano senza fiato e senza la forza di scrivere un rigo.
Ha avuto per me questo effetto paralizzante la morte di Franco Lauro, stroncato da una crisi cardiaca, mentre da solo trascorreva il lunedì di Pasqua nella sua abitazione romana di via della Croce. Ironia della sorte: qualche settimana prima, dopo aver avvertito un dolorino al torace, si era sottoposto a un controllo cardiologico e l’esito era stata rassicurante.
Sarebbe poco ricordare la sua straordinaria carriera di telecronista e conduttore con le sole cifre che comunque dicono tanto: otto olimpiadi estive, una invernale, sei mondiali di calcio, dodici europei e tre mondiali di basket, una infinità di trasmissioni guidate con eleganza e sensibilità (dalla “Domenica sportiva” a “Novantesimo minuto”). In tanti eventi internazionali ci siamo incrociati, lui inviato per Rai sport, io per il giornale Radio.
Ma tutto questo sarebbe riduttivo. Devo aggiungere, infatti, che se i telespettatori lo hanno ammirato per le sue capacità professionali, io ho avuto (come tanti altri nostri colleghi), la possibilità e il piacere di apprezzare le sue qualità umane, sin dagli anni ottanta quando lui, da giovane inviato, faceva le telecronache di pallacanestro della Viola Reggio Calabria, la squadra della mia città. E il più delle volte, finito di lavorare, ci trovavamo a parlare del più e del meno, davanti a un buon piatto a base di pesce. Poi, durante la settimana, spesso si faceva vivo per chiedere servizi di attualità e di costume sul basket calabrese. Lauro, lo affermo con convinzione, aveva nel suo Dna i valori del Panathlon: sempre leale, altruista, lucido, aggiornato, frizzante, competente, entusiasta, sensibile, rispettoso e mai fuori dalle righe.
Con franchezza dico che non riesco a trattenere le lacrime. E’ davvero un momento triste per il nostro giornalismo sportivo, che meno di un mese fa, ha perso un altro collega storico e di grande caratura professionale come Gianni Mura. Il coronavirus stavolta non c’entra. Si è solo messa di mezzo la sfortuna. Con tutta la sua inaccettabile carica di crudeltà. E tutti ci sentiamo più poveri.