-di Lorenzo Fabiano Della Valdonega –
Quando si dice la jella. Adelboden nefasta per i colori azzurri: del sogno infranto di Luca De Aliprandini su quella maledetta porta blu, abbiamo abbondantemente detto e scritto. L’attacco d’ulcera non l’avevamo ancora assorbito, quando in serata è arrivata la tegola che in un primo momento pareva poter essere scongiurata: il ginocchio destro di Manfred Mölgg ha fatto crack. Al peggio non c’è fine, trionfa il pessimismo cosmico al Trofeo Schopenhauer. Sembrava solo una distorsione, poi l’amara verità: e così fa ancora più male. L’illusione e poi la beffa crudele. La speranza e poi le braccia che ti cadono.
A Manfred in quella piroetta su uno dei tanti cunettoni della Chuenisbärgli è saltato il legamento del ginocchio destro. Diagnosi cruda, espressa in medichese ortodosso, linguaggio scarno e impietoso.
E pensare che alla seconda manche «Manni» aveva avuto accesso staccando l’ultimo bigliettino disponibile, il trentesimo. Una sola posizione indietro, e quella manche bastarda non l’avrebbe e nemmeno fatta.
Tant’è; quisquilie, arrampicate sugli specchi e robe da senno di poi che lo sport lascia volentieri alla politica. Manfred Mölgg è un patrimonio del nostro sci: tre medaglie mondiali (un argento e due bronzi), tre successi (tutti in slalom) in coppa del mondo, 7 secondi posti (4 in slalom, 3 in gigante), 10 terzi posti (9 in slalom, 1 in supercombinata), e una sfera di cristallo di slalom: palmares di rango.
La sua vittoria a Zagabria del 2017 è l’ultima che lo sci italiano ha festeggiato tra i pali stretti: il suo primo sigillo risale al 2008 quando vinse a Kranjska Gora: tempi in cui Greta andava all’asilo, Trump stava risollevandosi dal collasso finanziario ed era qualcosa d’improponibile, di Brexit manco l’ombra, le sardine erano in scatola sugli scali dei supermercati, Salvini ce l’aveva con i terroni e chiedeva il passaporto Padano: l’unica costante erano i nostri governi che continuavano a cadere come birilli al bowling sotto i colpi del trasformismo, vecchio vezzo e vizio italiota. Ma il «Manni»no, lui era sempre lì a divorarsi pali e paletti poche parole, le sue lamine la sua penna , la neve il suo quaderno.
Non è nuovo ad infortuni: nell’estate del 2014 finì sul lettino del chirurgo con il tendine d’Achille strappato, il mal di schiena è stato suo fedele compagno di viaggio; lui non ha mai fatto una piega, mai un lamento di troppo, ha pagato il suo dazio a uno sport che ama e che sa bene quanti conti salati presenti.
Uno sportivo vero ed autentico, un esempio: solo pochi giorni fa sulla 3Tre di Madonna di Campiglio aveva dato sfoggio di classe e tenacia, unico azzurro a finire nei primi dieci: il Canalone Miramonti si è spellato le mani negli applausi.
A 37 anni, è ancora lì davanti: un monumento coi galloni di traghettatore di un ricambio generazionale che fatica a emergere, ma che ha in Alex Vinatzer il Capitan Futuro. E per un giovane, un uomo come Manfred Mölgg è l’esempio da seguire: una fortuna avere in squadra comete simili. Manfred il ruolo lo stava interpretando con la consueta serietà e grande senso di responsabilità. Sempre davanti, sempre sul pezzo: il veterano che trascina le nuove leve. Bel quadro, bella storia. Detto questo, stava sciando davvero bene, dopo una stagione, quella passata, assai tribolata e trascorsa più a letto col termometro che in pista tra i pali. Voglia ed energia erano ancora le stesse di quel marzo del 2008 a Kranjska Gora. Ora quest’infortunio, grave: futuro incerto, cantava Tonino Carotone.
Il prossimo anno ci sono i mondiali di casa a Cortina: i giorni del commiato sarebbero stati con ogni probabilità quelli. Teoricamente i tempi di recupero per essere di nuovo sugli sci in estate, ci sarebbero. Manfred è uno che mai si è tirato indietro. Ora è a un bivio, e spetta solo a lui decidere il da farsi: comunque sia, a noi non rimane che alzarci in piedi e dirgli una sola cosa: grazie. Perchè i campioni, sono prima di tutto grandi uomini.
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