–di Adalberto Scemma –
Alberto Brambilla è schiavo di un sogno a due colori: il bianco e il blu. E’ un sogno ricorrente. Il bianco e il blu prendono lentamente posizione, si dilatano in orizzontale seguendo un ordine progressivo, poi si materializzano a strisce sulla maglia della squadra del cuore: la Pro Patria. E quella maglia finisce sempre, inesorabilmente, sulle spalle di un fuoriclasse che Alfredo Di Stefano definiva “più talentuoso di Pelè”: Laszlo Kubala.
I destini di Kubala e della Pro Patria si sfiorarono a lungo (70 anni sono trascorsi, era il 1949) ma non si incrociarono mai. Pendeva una squalifica e la maglia “tigrotta” venne indossata da Kubala soltanto nelle amichevoli prima del trasferimento a Barcellona per una carriera sempre in bilico tra mito e leggenda. Quel mito, e quella leggenda, che hanno alimentato anche i sogni senza tempo dei tifosi della Pro Patria tra i quali, inesausto cacciatore di emozioni bustocche, proprio Alberto Brambilla.
Saba Trieste il calcio
Si può partire da Kubala per raccontare “Saba, Trieste, il calcio”, l’ultimo libro di Brambilla? Certo che si può. Prima di tutto perché ci sono i presupposti (“Enigmi, finzioni, verità”, e poi ancora “Capricci e divagazioni sulle cinque poesie per il gioco e del calcio”, questo il suggestivo, chilometrico sottotitolo a corredo) per giustificare una recensione fuori dai canoni tradizionali. E poi perché senza il supporto di Kubala e della Pro Patria, presenze ricorrenti, Umberto Saba non avrebbe acceso in Brambilla quella fiamma che in letteratura, ma anche nel calcio, con disarmante semplicità, si chiama semplicemente “passione”.
Saba non era un poeta criptico. Lo affascinava la semplicità del quotidiano, Trieste con i suoi caffè e le sue strade piene di sole, e la gente che la consuetudine rendeva familiare. Il fantastico, l’immaginario, l’”irreale”, non appartenevano alle sue corde. L’esatto contrario della condizione in cui Brambilla, sognatore di lungo corso, si trovò a operare come docente di letteratura italiana all’Università di Verona.
Umberto Saba, chi era costui? Un poeta da raccontare in tralice agli studenti, d’una galassia sentimentale priva di appeal. Finché non è arrivata la Pro Patria, con le sue leggende controverse, con il ricordo in punta di magia di Laszlo Kubala e di Lelio Antoniotti, a incrociare nell’era moderna, in un esasperato doppio play-off promozione, la fatidica Triestina, squadra guerriera, squadra d’alabarda. Quella Triestina che aveva finito, quasi senza parere, per accomunare in un unico afflato calcistico due poeti appartenenti a generazioni diverse: Umberto Saba e Vittorio Sereni.
Semifinale Pro Patria Triestina
Ecco dunque allo “Speroni” di Busto Arsizio, 7 giugno 1998, la semifinale di ritorno tra Pro Patria e Triestina. “Tigrotti” in gol all’85’ per una qualificazione che attende soltanto il trillo finale dell’arbitro Pieri. Ma quel “trillo estremo” non arriva mai, l’attesa si dilata attraverso strade indecifrabili finché l’arbitro, consciamente o meno, diventa l’innesco di una furia belluina quando la Triestina segna al 97’ il gol che la qualifica scippando alla Pro Patria quel sogno già al decollo.
Lo stadio è una bolgia, i tifosi zompano assatanati dagli spalti per una caccia all’arbitro che ha le cadenze truci del linciaggio. Tra costoro emerge la mutria feroce di Alberto Brambilla, immortalato in corsa da un fotoreporter. C’è proprio lui, lo si vede a sinistra sullo sfondo, nel drappello dei più assatanati. “Sono solo un punto -confessa oggi con una virgola di contrizione- un’ombra d’inchiostro”. La foto però non scava dentro, non ritrae lo sdegno, non racconta la partecipazione emotiva, quel “sentirsi parte del tutto” che porta Alberto a percepire come un flash improvviso l’essenza dei versi di Saba: proprio questa è la magia del calcio, che non si gioca solo su un rettangolo verde perché la partita vera si disputa sul terreno dell’altrove, dove più evidente è “l’impronta della calda vita”. Ed è in questa chiave apparentemente aliena che il cacciatore di sogni Alberto Brambilla insegue lungo rotte indefinibili, fino a captarne “enigmi, funzioni e verità”, le cinque poesie che Umberto Saba ha dedicato al gioco del calcio con ossimorico urlo silente (“diversamente-ugualmente commosso”). Un processo che proprio Saba definisce chimico e sentimentale e che in virtù di questa sua caratura emotiva ha finito per coinvolgere in un epico gemellaggio riparatorio, negli anni a seguire, le tifoserie della Pro Patria e della Triestina.
Pro Patria – Triestina
Non so quale spazio sia il caso di riservare o meno alle chiromanzie delle coincidenze ma uno sciamano occulto deve averci messo del suo. Perché la settimana prima del fatidico Pro Patria-Triestina, era toccato proprio a me, 31 maggio 1998, seguire per il Corriere dello Sport-Stadio, il turno d’andata dei play-off e raccontare l’impresa dell’Alabarda nel giorno in cui la città ospitava anche la tappa a cronometro del Giro d’Italia poi vinto da Pantani. Cinquant’anni prima, campionato 1947-’48, le due squadre avevano toccato il rispettivo massimo storico in serie A con il secondo posto della Triestina alle spalle del Grande Torino e l’ottavo della Pro Patria a pari merito con il Bologna.
“Deve esserci un guizzo dionisiaco -scrivevo alla vigilia, presentando la partita- anche in questa magia del destino, in questa storia che torna come in un giro matto del tempo a battere i suoi rintocchi con i bulloni di legno, le cavigliere tirate su fino ai polpacci, le bandane bianche nello stile dei pirati. E’ un altro calcio, d’accordo. Eppure resiste, da qualche parte, l’aspro odore di quei giorni, l’odore delle maglie che fumano in un angolo dello spogliatoio a fine partita, l’odore dell’erba e del sapone. Chi non l’ha provato -cito Fernando Acitelli, poeta di solitudini calcistiche- non credo possa scrivere di calcio con tutti i sentimenti”. Alberto Brambilla, disossato oggi da ogni compulsivo assatanamento da tifo, affratellato dall’epica bustocca di Laszlo Kubala e dal traslucido fervore alabardato di Nereo Rocco, supinamente concorda.