Franco Causio, un campione del mondo, e Fernando Scarpa, una promessa mancata
di Ludovico Malorgio/Redazione Lecce Area8 Puglia Calabria Basilicata
Molti anni fa, tanti, ho appeso a un chiodo le mie vecchie scarpe da calcio. Le conservo nel mio studio, tra foto di famiglia, libri, giornali e altri oggetti che a vario titolo appartengono al mio passato. Quelle scarpe raccontano una parte importante della giovinezza, del calcio da me praticato per alcuni anni nei campionati giovanili. Penso a quanto hanno rappresentato per me e qualche volta, anche, ai sacrifici compiuti per acquistarle. Sono le famose ‘pantofola d’oro’, quanto di meglio si poteva vedere ai piedi di un ragazzino sui campi di calcio nei “favolosi anni ’60”, che hanno segnato il costume, la musica e anche lo sport italiano. In un calcio povero, in cui era difficile addirittura mettere insieme undici magliette uguali, era un problema disporre di un paio di scarpe da calcio degne di questo nome. Figurarsi una ‘pantofola d’oro’, che costava tre volte il prezzo di una scarpa normale. Era quasi un sogno per molti ragazzi. Se la potevano permettere i benestanti e quelli tesserati per società professionistiche. Per il resto queste scarpe erano diventate un specie di ‘status simbol’ in quanto le piccole società le davano in dotazione ai più bravi, mentre tutti gli altri dovevano acquistarle con grandi sacrifici. Costavano tanto, ma erano di grande qualità: suola morbida e tomaia in vera pelle. Si modellavano facilmente sul piede e facilitavano il controllo della palla. Per quel tempo, erano fortemente innovative, leggere ed eleganti, lontane anni luce dalle prime scarpe da calcio rozze e pesanti, dotate addirittura di mascherine d’acciaio in punta. Osservo spesso le mie ‘pantofole d’oro’ che da oltre cinquant’anni pendono dal chiodo e, quasi, quasi mi fanno tenerezza. Mi rivedo in calzoncini e maglietta al ‘Bisanti’ di Lecce, un campo in terra battuta in cui negli anni ’60 ho disputato alcuni campionati ‘allievi’ e juniores’. Mi tornano alla mente partite e compagni di squadra con cui ho condiviso la gioia per una vittoria o l’amarezza per una sconfitta. Mi sfilano anche le facce di tanti avversari affrontati in campionato ed il ricordo mi fa sentire testimone importante nella storia del calcio leccese, perché ho avuto il privilegio di affrontare avversari che sarebbero entrati di prepotenza nel grande calcio italiano. Giocavano con il Lecce. Uno su tutti, un fuoriclasse, Franco Causio, il ‘barone’, per anni ‘stella’ della Juventus e campione del mondo nel 1982 con la Nazionale; poi Aldo Sensibile (30 presenze in serie A con la Roma, 147 in B e 100 serie C), e il compianto Mario Russo (29 presenze in serie A con la Roma, 225 in B e 124 in C). All’epoca questi tre ragazzi, con altri compagni nelle ‘giovanili giallorosse’, erano considerati delle promesse. Attilio Adamo, il ‘maestro’ per eccellenza del calcio leccese, li trasformò in grandi calciatori, rendendo anche noi orgogliosi di averli conosciuti e affrontati sul campo. Trovarseli di fronte non era tanto semplice. Bisognava marcarli e quanto meno limitarli. Sotto certi aspetti era un’impresa. A me, modesto centrocampista della Libertas Cavallino, negli scontri diretti con il Lecce, piaceva anche osservarli, specie le giocate di Franco Causio destavano già ammirazione. Sì, il ‘barone’ era un predestinato e si vedeva, ma altri ragazzi che giocavano in piccole società leccesi si facevano apprezzare in campo. Uno, in particolare, aveva tutto per diventare un campione. Si chiamava Fernando Scarpa ed era un attaccante. Giocava con i calzettoni abbassati alla ‘Sivori’ e la maglietta di fuori. Un’iradiddio in area di rigore avversaria. Geniale, nato per il calcio, era del Lecce Sport, storica società dilettantistica leccese. Fu preso subito dall’Inter e si traferì a Milano, ma non resistette molto. Tornò in Salento per giocare in prestito in serie D al Galatina, ma non rientrò più alla casa madre. Per vari motivi non arrivò mai in serie A, ma ebbe una onorata carriera da professionista (69 presenze in serie B con Sorrento, Catania, Sorrento e 177 in serie C). A posteriori si può parlare di un grande talento sprecato, ma è difficile stabilire quanto abbiano inciso la sfortuna e la mancanza di quel sacro furore, che aiuta a crescere ed imporsi nel calcio e nella vita. Scarpa oggi è un nonno felice, dichiara di non aver rimpianti, però resta la curiosità, forse anche sua, di conoscere quale sarebbe stata la sua carriera se avesse avuto più voglia di arrivare. Mah, ognuno ha la sua storia. Buona anche quella di altri miei coetanei che sul ‘Bisanti’ macinavano km, segnavano gol o li evitavano: Caforio, Chiriatti, Candido, Cannone, Molendini, Marzo, Capilungo, sono nomi, che non dicono niente ai più, ma anche loro hanno lasciato una chiara impronta nella storia del calcio leccese e salentino. Qualcuno ha respirato anche aria di serie A, come Ezio Candido, portiere della Pro Patria Lecce, approdato a 20 anni alla Roma di Helenio Herrera, poi avvocato e team manager del Lecce di Semeraro. Insomma, i ricordi sono tanti e riguardano anche il piacere di giocare al ‘Tommaso Bisanti’, un campo vero, un autentico gioiellino realizzato al rione Castromediano, alla periferia di Lecce, dalla Federazione Italiana Gioco Calcio ed inaugurato il 4 ottobre 1953 dal mitico presidente nazionale Ottorino Barassi con una cerimonia che fece epoca. Oggi non c’è più, è stato trasformato in parco pubblico. Ah, quanti ricordi sono racchiusi nelle mie ‘pantofola d’oro’! Restano appese al chiodo, inerti e coperte di polvere, ma hanno un’anima anche loro, la mia. Ogni tanto, me le guardo. Ieri le ho pulite.