di Lorenzo D’Ilario – Redazione Roma Area14 Lazio
15 medaglie ai Giochi paralimpici (8 oro, 6 argento, 1 bronzo), 10 ai Mondiali (6 oro e 2 argento) e 6 agli Europei, tutte d’oro, da nuotatore nelle specialità stile libero, dorso, rana e farfalla. Il merito di trainare da oltre vent’anni lo sport paralimpico italiano verso orizzonti sempre nuovi da presidente. Due manuali di diritto, nonché una serie infinita di interventi e lectio magistralis in materia di diritto sportivo e impiantistica da avvocato e docente nelle più importanti università italiane. Chissà quante medaglie olimpiche avrebbe vinto nel pentathlon moderno se nel giugno del 1981 durante la frazione di gara a cavallo di un meeting internazionale a Vienna non avesse riportato la frattura delle vertebre cervicali, con conseguente lesione midollare e paralisi degli arti inferiori. Di certo da quel giorno è cambiata la sua vita e, con essa, il futuro dello sport italiano, che grazie al suo impegno sportivo, etico, civile e giuridico inizia oggi ad intravedere quella che un tempo era una chimera. La storia di olimpismo e paralimpismo, infatti, non può essere più disgiunta e Luca Pancalli rappresenta l’esempio vivente di questa simbiosi. Di seguito l’intervista che il presidente del Comitato Italiano Paralimpico ha gentilmente concesso al Panathlon Distretto Italia. Lo scorso febbraio cinque atleti paralimpici hanno firmato un contratto con le Fiamme Gialle, che dà diritto a entrare a pieno titolo nel Gruppo Sportivo. Qual è la vera portata di questo traguardo? “Il risultato più evidente è sicuramente quello di consentire agli atleti paralimpici di alto livello di poter fruire dei medesimi trattamenti retributivi, previdenziali e di sicurezza, anche sotto il profilo sanitario, dei loro colleghi olimpici. Questo vuol dire metterli nelle migliori condizioni possibili per essere protagonisti nei palcoscenici sportivi più prestigiosi. Inoltre, al di là della dimensione agonistica, la garanzia di uno stipendio e di un posto di lavoro al termine della loro carriera assume un significato quanto mai importante per le loro vite. Ma il risultato più grande, in realtà, è un altro. Cioè? “Con questa conquista abbiamo abbattuto una barriera che fino a pochi anni fa sembrava insormontabile e messo in moto un virtuosismo culturale di straordinaria importanza per il progresso del nostro Paese. A breve, infatti, gli altri gruppi sportivi militari seguiranno l’esempio delle Fiamme Gialle ed il risultato finale sarà quello di aver trasmesso al Paese un impulso decisivo ai fini della creazione di un sistema di pari opportunità che mi auguro possa contagiare positivamente tutta la società italiana”. Nel 2017 il Cip, di cui il 25 maggio 2021 è stato riconfermato presidente, è divenuto un ente autonomo di diritto pubblico venendo, di fatto, equiparato al Coni. Come si è arrivati a questa svolta epocale? “Sin da quando nel 2000 sono stato eletto presidente della Federazione Italiana Sport Disabili, che all’epoca era soltanto una delle numerose federazioni sportive nazionali del Coni, abbiamo creato i presupposti ed intrapreso un percorso ben delineato per arrivare al riconoscimento come ente pubblico perché nella nostra ‘vision’ ritenevamo che questo traguardo fosse strategico per il futuro della famiglia paralimpica italiana”. Per quale motivo? “Un’entità che sul piano organizzativo fosse equiparabile al Coni avrebbe dato sicuramente maggiore dignità al movimento paralimpico. Ma, soprattutto, eravamo consapevoli che elevare ad ente pubblico un’organizzazione sportiva avrebbe significato elevarne ad interesse della collettività la sua ‘mission’. Questo era importante non tanto per avere un maggiore potere dirigenziale quanto piuttosto per fornire al Paese un’istituzione che rimarrà al di là di chi oggi ne è alla guida e sarà in grado di lavorare sempre meglio per lo sviluppo della famiglia paralimpica italiana”. Qual è il ruolo che gli sport paralimpici svolgono nella società italiana? “Uno dei ruoli degli sport paralimpici è sicuramente quello di cercare di mettere nelle migliori condizioni possibili tutti coloro che vogliono diventare atleti, imparando a guardare a ciò che gli è rimasto anziché a ciò che hanno perso. Sul piano politico, invece, l’altro ruolo è quella di dimostrare che, così come avviene nello sport, se le persone con disabilità fossero messe nelle condizioni giuste sarebbero capaci di eccellere in tutti gli ambiti della vita. Gli sport paralimpici, infatti, forniscono alla società un’immagine delle persone con disabilità declinata in positivo e spronano le istituzioni ad investire nello sport per costruire un Paese migliore”. In che modo? “La politica dovrebbe innanzitutto comprendere a pieno che lo sport rientra tra i diritti dei cittadini di fronte ai quali le istituzioni hanno il dovere di rispondere in termini di pari opportunità per poterne garantire il pieno rispetto. D’altronde, come è stato ribadito anche dalla Convenzione dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità, lo sport è uno strumento atto a garantire percorsi di inclusione e integrazione sociale di fondamentale importanza. Lo sport, quindi, va inteso non solo in relazione alla dimensione agonistica e competitiva ma anche come settore delle politiche pubbliche sul quale investire per migliorare la società. Non bisogna volgere lo sguardo soltanto alle medaglie ma anche e, soprattutto, all’importanza dello sport per la costruzione di un sistema di welfare attivo che investa sui comportamenti positivi e virtuosi dei cittadini. In quest’ottica investire nello sport paralimpico è sicuramente una scelta vincente”. Quanto conta, oltre alla politica, il supporto delle istituzioni scolastiche? “Per nessun atleta, olimpico o paralimpico, è facile conciliare carriera sportiva e universitaria a causa delle competizioni, degli allenamenti e dei raduni. Purtroppo le università italiane, a differenza dei paesi anglosassoni, sono ancora molto indietro sulla ‘dual career’. Le istituzioni scolastiche dovrebbero avere maggiore consapevolezza dell’esigenza di sviluppare percorsi che consentano allo studente-atleta di conciliare le esigenze sportive con quelle di studio. Non possiamo applaudire i nostri atleti soltanto quando vincono le medaglie ma dobbiamo aiutarli e sostenerli anche nello studio, soprattutto per garantirgli un futuro dignitoso quando la loro carriera sportiva volgerà al termine”. Quali sono, invece, gli attuali rapporti tra il Coni e il Cip? “Il rapporto con il Coni è stato molto buono sin dall’inizio. Sin dall’assemblea federale del 2003, ben 14 anni prima del riconoscimento come ente pubblico, abbiamo disegnato la ‘vision’ e individuato strategia di azione e tempi di attuazione dell’uscita del mondo paralimpico dal Coni. Perciò nel 2017 è stato quasi del tutto naturale per entrambe le parti metabolizzare la separazione. Abbiamo dovuto far uscire il movimento paralimpico non per qualcosa di personale nei confronti del Coni ma soltanto per fare in modo che il primo potesse brillare di luce propria, crescere e dimostrare con i fatti che i nostri atleti meritassero pari dignità e considerazione. Direi che ci siamo riusciti a pieno non solo per i risultati sportivi ma anche perché abbiamo realizzato una vera e propria rivoluzione culturale, che ha aiutato la politica, la società e il mondo della comunicazione a cambiare atteggiamento nei confronti degli atleti paralimpici. Ma non è finita qua!” Cosa dobbiamo ancora aspettarci? “Oggi Cip e Coni sono due facce della stessa grande famiglia sportiva ma la strategia definita nel 2003 prevedeva anche la fusione in un unico ente. Non un ritorno all’interno del Coni ma la nascita del “Comitato Olimpico Paralimpico Nazionale Italiano. Sono sicuro che lo sport italiano sarà pronto ad accogliere anche questa rivoluzione se continueremo a lavorare per creare il substrato culturale adatto”. A proposito, perdue mandati consecutivi, dal 2004 al 2012, è stato anche vice presidente del Coni. Cosa ha provato nel ricoprire questa carica? “Devo questa carica, che a livello personale è stata un gradito riconoscimento di quanto stavo facendo come dirigente sportivo e mi ha permesso di imparare tantissimo, alla straordinaria sensibilità dell’allora presidente del Coni Gianni Petrucci. Ma in realtà la vicepresidenza del Coni è stata ancora più importante per il movimento paralimpico che, grazie al fatto che il mio impegno per la causa era stato riconosciuto in maniera trasversale, è riuscito ad incidere maggiormente a livello federale e istituzionale. Da questo punto di vista, infine, la ciliegina sulla torta è stata l’incarico di commissario straordinario della Figc, che ha dato a me e, di riflesso, al movimento paralimpico, una visibilità senza precedenti. È stato questo il momento in cui gli italiani hanno iniziato a capire che gli atleti paralimpici, così come tutte le persone con disabilità, non dovevano essere necessariamente confinati in un determinato recinto ma, se preparati e competenti, meritavano le stesse opportunità degli atleti olimpici e dei normodotati”. Venendo ai giorni nostri, qual è il suo bilancio delle Paralimpiadi di Tokyo e dei Giochi paralimpici invernali di Pechino? “Sono stati due successi incredibili. Con Tokyo, dove abbiamo vinto 69 medaglie e con il nono posto siamo entrati nella ‘top ten’ del medagliere, abbiamo raggiunto il punto più alto dei risultati sportivi di sempre se si considera che le Paralimpiadi di Roma 1960, in riferimento al numero di atleti e nazioni partecipanti, non sono certo paragonabili a quelle attuali. Anche le sette medaglie di Pechino sono un grande risultato perché vanno commisurate ai numeri degli atleti paralimpici rispetto a quelli olimpici. In ogni caso, il successo più importante non è quello rappresentato dalle medaglie quanto piuttosto lo straordinario interesse generato negli italiani, che si sono innamorati delle Paralimpiadi. La vera medaglia d’oro del movimento paralimpico è la trasformazione della società. Siamo fieri di aver aiutato il Paese a formare giovani migliori e di aver avvicinato allo sport, agonistico e non, tante ragazze e tanti ragazzi con disabilità. Al tempo stesso, però, non dobbiamo dimenticare che i successi fanno sempre parte del passato”. E quindi? “Stiamo già programmando le Paralimpiadi di Parigi 2024 e, soprattutto, i Giochi paralimpici invernali di Milano-Cortina 2026, un appuntamento particolarmente importante perché giocheremo in casa. Con questo non mi riferisco solo ai risultati sportivi ma anche alla grande occasione che avremo per divulgare e promuovere una concezione inclusiva dello sport tra le nuove generazioni. Mai come negli anni a venire sarà importante investire nelle politiche sportive e coinvolgere i giovani, che attraverso lo sport vengono educati anche al rispetto della legalità”. Quanto è cambiato lo sport paralimpico da quando ha fatto il pieno di medaglie partecipando a quattro edizioni delle Paralimpiadi? “Tantissimo. Il vero cambiamento è avvenuto a Seul 1988, quando per la prima volta, per volere dell’allora presidente del Cio Juan Antonio Samaranch, gli atleti paralimpici hanno gareggiato nello stesso luogo e negli stessi impianti degli atleti olimpici. Oggi siamo di fronte a un grande evento sportivo planetario che ha un primo e un secondo tempo che, nello sport come al cinema, non di rado è persino più importante del primo. A livello organizzativo vi è molta più professionalità, gli sponsor non hanno più paura di apparire e la tecnologia ha fatto passi da gigante fornendo agli atleti materiali all’avanguardia che hanno migliorato le loro prestazioni. Anche il rapporto con i media si è evoluto ed in questo con un pizzico di orgoglio posso dire che gran parte del merito va anche al Cip”. A cosa si riferisce? “Così come avvenuto con i gruppi sportivi militari, abbiamo rivoluzionato l’approccio della stampa nei confronti del movimento paralimpico attraverso un’accurata pianificazione manageriale. Oggi i giornalisti utilizzano terminologie appropriate e, oltre alla narrazione umana, che in passato assumeva connotazioni a tratti pietistiche e compassionevoli, si sono appassionati a quella sportiva. Inoltre, il Cip si è fatto promotore della registrazione nel vocabolario Treccani del termine «paralimpico», che si riferisce sia all’«atleta che partecipa alle paralimpiadi» che alla «persona disabile che pratica una disciplina sportiva». Parlando di «atleta paralimpico» abbiamo messo al centro l’atleta e non la sua disabilità, restituendo al paralimpismo la sua dignità”. Infine,qual è il suo rapporto con il Panathlon e quali sono le sfide delle Associazioni Benemerite nel panorama sportivo? “Ho sempre avuto un buon rapporto con il Panathlon Distretto Italia, che non a caso è un’associazione benemerita del Cip, oltre che del Coni. Ciò che mi preme sottolineare è l’esigenza, che coinvolge sia il Panathlon che le altre associazioni benemerite, di trovare la propria anima e scoprire qual è il terreno sul quale doversi misurare in termini di sfide. Le associazioni benemerite, infatti, devono elaborare una coscienza critica rispetto alla propria organizzazione per capire come possono essere più utili non solo ai propri associati ma anche e, soprattutto, al contesto nel quale operano. Altrimenti il rischio è quello di diventare autoreferenziali e di non essere in grado di intercettare le nuove generazioni. Il mondo dello sport ha urgente bisogno di una rivoluzione culturale e sotto questo profilo il Panathlon ha il dovere di provare a svolgere la sua azione meritoria in maniera sempre più propositiva aprendo le proprie porte ai giovani”.