Di Romano Mattè, Panathlon G. Brera Università di Verona
Guardando la finale di Champions, a tratti mi è parso di veder giocare la Dea di Gasperini quando era in piena condizione psico-fisica sia pure con minore intensità rispetto al City e al Chelsea per quanto concerne velocità di gamba, rapidità di lettura situazionale e di trasmissione di palla. Lo spettacolo era tutto nell’agonismo rudemente verticalizzato, nella tendenza a “sprintare” il più velocemente possibile degli avversari.
Paradossale è la vicenda di Tuchel: esonerato dal P.S.G. prima di Natale, passa ai Blues e li rivitalizza dando loro anima, mentalità, sicurezza, solidità difensiva e recuperando giocatori che erano prima finiti al margine. Il City di Guardiola, dato per superfavorito, viene invece colpito a morte da una coltellata in puro e nobilissimo contropiede verticalizzato. E’ bastato un assist al bacio di Mount per tagliare a fette la linea difensiva del City su cui si è fulmineamente avventato il giovane talento tedesco Havertz per chiudere la sfida. Va sottolineato che per la prima volta in assoluto nella storia della Champions a vincere la finale una squadra con la difesa a tre, contro cui il City non ha saputo trovare profondità e adeguate contromisure. Due centrocampisti del Chelsea hanno dominato tatticamente la scena: il piccolo formidabile uomo-dovunque Kantè e il nostro Jorginho, mirabile concentrato di lucida qualità e buona quantità.
E’ scomparso il tanto celebrato possesso palla di cui Capello aveva già pronosticato la fine dopo il Mondiale di Russia 2018. Le due squadre si sono aggredite azzannandosi, pressandosi, avvinghiandosi e picchiandosi (quasi sempre) lealmente come due pugili sul ring. Pochi i dribbling, solo quelli strettamente necessari negli ultimi 20-25 metri offensivi: si supera l’avversario con la velocità del passaggio, con la rapida triangolazione-sponda palla a terra, con l’anticipo e il posizionamento mirato e puntuale. Non c’è più la minima traccia di “gioco posizionale”, di costruzione dal basso, di presenza di fantasisti, di seconde o prime punte classiche. Non c’è traccia di chi inventa gioco perché l’invenzione presuppone “pensiero” e questo richiede tempo, e prendere tempo significa essere più lenti e, quindi, più prevedibili. Bisogna correre il più veloci possibile degli avversari secondo concetti elementari perché, in fondo, elementare è il gioco del calcio. Ricordo a questo proposito che il grande Liedholm aveva sempre pronta una sarcastica battuta detta quasi con un filo di voce come era suo costume: “Il calcio l’hanno già inventato!”.
La perfida Albione dopo 70 anni è riuscita a fondere e mescolare mirabilmente le stesse culture calcistiche (latino-sudamericane, slave, africane) che l’avevano contaminata, dandoci un calcio nuovo, forse un tantino meccanico ma che è la proiezione ludica di un mondo sempre meno romantico e più freddamente tecnologico.