-Di Romano Matté/Redazione G.Brera–
Non ho ancora sentito alcuna vera e argomentata risposta sul motivo per cui da più di vent’anni non riusciamo a formare grandi giocatori. Il calcio, nella sua profonda essenza, è un aspetto del Paese che lo esprime, è la proiezione ludica della nostra società, sottolinea e accompagna ogni nostra evoluzione sociale: il calcio è ciò che noi siamo!
Da tempo non abbiamo più fuoriclasse di livello mondiale e ciò significa che qualcosa è cambiato nelle abitudini e nel nostro vivere sociale. Il nostro campionato è invaso dagli stranieri al punto che tutti i più grandi club hanno smarrito l’essenza della nostra identità nazionale. Ci sono sempre più giocatori africani, che possiedono quella forza esplosiva e temperamentale unita a una “fame sociale” assente nei nostri giovani, troppo spesso vezzeggiati e coccolati quando non sono in balia dei genitori manager che anelano al proprio riscatto attraverso l’incerto futuro dei loro figli.
Si avverte la mancanza di tutte quelle piccole-grandi realtà come gli oratori, i piccoli spazi sparsi ovunque, gli spazi stretti dei cortili. Manca in altri termini quella realtà chiamata “scuola della strada”, quella che il grande Alfredo Di Stefano chiamava “la universidad de la calle”, formidabile strumento di confronto e di crescita tecnica, nonché di immediata, spontanea coinvolgente socializzazione.
Parliamo tanto della qualificazione degli istruttori, dei nuovi centri federali sul modello belga e tedesco come se i vivai dei nostri grandi club già non lo fossero e non avessero per primi l’interesse a far crescere e a formare i propri ragazzi. I nostri giovani talenti non sono inferiori a quelli stranieri: devono solo avere la possibilità di giocare di più perché più minutaggio nella prima squadra (abbiamo il campionato più “vecchio” d’Europa) significa acquisire più esperienza, più coraggio, più personalità e migliore capacità di gestire i momenti cruciali di ogni match.
La crisi economica dei nostri club per mancanza di liquidità (al botteghino) può rappresentare ora una buona e inattesa opportunità per avere più fiducia nei nostri giovani talenti che non devono essere bruciati alla prima prova negativa. Mancano due fondamentali e coraggiose riforme a livello politico: la nostra scuola deve cessare di essere autoreferente e deve aprirsi totalmente allo sport sul modello anglosassone; va abolito inoltre lo “ius sanguinis”, sul metro di ciò che avviene in tutta Europa, per varare finalmente lo “ius solis” alle stesse condizioni del modello tedesco.
Parliamo di tattica prima ancora di insegnare ad affinare la tecnica di base. Nei nostri vivai ben pochi istruttori applicano il Metodo M.A.E. (insegnamento attraverso l’errore: prof. Walter Bragagnolo) o conoscono la scoperta dei “neuroni-specchio” (prof. Giacomo Rizzolatti) che ha rivoluzionato la metodologia di allenamento nell’attività di base dei bambini. Infine, viene quasi totalmente disatteso l’aspetto etico (lealtà, sincerità, spirito di sacrificio reciproco) che è il collante magico dell’empatia tra gli allievi.
Nonostante tutte le chiacchiere, e anche qualche buon proposito, non vedo una reale novità forte che dia più slancio e qualità al nostro calcio. Nei vivai i giovani vengono omologati e il talento e la creatività vengono spenti o, peggio ancora, soffocati da allenatori che puntano al risultato per inserirsi nel calcio che conta dove visibilità e compensi sono di gran lunga più gratificanti. Si invitano i bambini a sognare e a divertirsi ma nessuno si diverte quando l’avversario è più forte!
Qualcuno farnetica per ignoranza storica di mentalità offensiva, che sarebbe stata secondo costoro una prerogativa vincente degli eserciti romani (quando il dominio di Roma uscirà dai nostri italici confini l’esercito romano diverrà un crogiuolo di molteplici etnie!). Si dimentica che dopo il crollo dell’Impero romano l’Italia come tale per 1600 anni cesserà di esistere, venendo invasa, saccheggiata e devastata da orde straniere.
Rimanendo sempre nell’ambito della storia ricordo che, purtroppo, attaccando abbiamo perso tutte le guerre con buona pace di coloro che hanno la presunzione dello storico sapere. L’unica nostra vittoria fu quella sulla linea del Piave dove l’esercito divenne esercito di popolo e dove resistemmo in un’epica battaglia difensiva fiaccando e logorando il nemico per poi passare all’offensiva. Questo per il rispetto della verità storica.
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