Intervista
–di Enrico Brigi-
Nella storia del calcio italiano il ruolo del portiere ha avuto molti interpreti illustri. Uno di questi è senza dubbio Ivano Bordon. Originario di Marghera, località del comune di Venezia, dove è nato il 13 aprile del 1951, entrato giovanissimo nel settore giovanile dell’Inter, ha trascorso ben quindici anni con la società nerazzurra, arrivando anche a conquistare la maglia azzurra della nazionale. Cresciuto alle spalle di un maestro del ruolo quale è stato Lido Vieri, ha messo insieme con la società milanese quasi 400 gettoni tra campionato e coppe. Dopo l’Inter la sua carriera è proseguita con le maglie di Sampdoria (tre stagioni) e Sanremese, prima di chiudere con due campionati in serie B a difesa della porta del Brescia. Appesi i guantoni al chiodo ha intrapreso la carriera di allenatore dei portieri seguendo Marcello Lippi prima alla Juventus e poi in Nazionale. Nella sua carriera, oltre ai due scudetti vinti con l’Inter nelle stagioni 1970/71 e 1979/80 – il secondo da protagonista – spiccano i due mondiali vinti da giocatore – nel 1982 in Spagna come vice di Dino Zoff- e nel 2006 in Germania come allenatore dei portieri.
La sua è stata una carriera importante e ricca di soddisfazioni. Facciamo un triplo salto carpiato all’indietro nel tempo e partiamo dal suo esordio in serie A.
«Ricordo benissimo come se fosse ieri. Era il derby dell’8 settembre 1970, entrai in campo in sostituzione di Lido Vieri infortunato. Perdemmo la partita per 3 a 0 ma fu per me una grande soddisfazione quella di aver esordito proprio a San Siro nella partita più importante di una stagione.»
Anche l’esordio nelle coppe europee, comunque, non fu da meno.
«Effettivamente è proprio così. A dir la verità l’esordio vero fu in una partita di Coppa delle Fiere contro il Newcastle, dove perdemmo 2-1, quando dovetti anche in questo caso prendere il posto sempre di Lido Vieri, questa volta espulso, sembra per aver colpito l’arbitro durante un parapiglia. L’esordio da titolare, tuttavia, avvenne nella famosa sfida di Coppa dei Campioni del 20 ottobre del 1971 con il Borussia Monchengladbach, passata alla storia per la ripetizione in seguito all’episodio della lattina che colpì Roberto Boninsegna. Quella partita, infatti, finita 7 a 1 per loro, venne ripetuta, nonostante confidassimo nella vittoria a tavolino. Nella ripetizione toccò a me la maglia da titolare. L’obiettivo era difendere il 4-2 dell’andata e ci riuscimmo in pieno. Il match, infatti, terminò 0 a 0 e io parai anche un rigore dopo nemmeno un quarto d’ora di gioco. Fu di fatto il classico “battesimo di fuoco” che ricordo, però, con grande piacere e orgoglio.»
Ai suoi tempi nelle società professionistiche non esisteva ancora la figura del preparatore dei portieri. Quanto è stato importante avere davanti un portiere del calibro di Lido Vieri?
«Lido è stato importantissimo per la mia crescita sportiva e professionale. Avere davanti un maestro come lui è stato fondamentale per la mia carriera. Aggiungo anche Gianni Invernizzi, allora mister, che mi conosceva fin da tempi delle giovanili, che al termine di ogni allenamento si dedicava a me con una serie di calci a ripetizione. In quei tempi la figura del preparatore dei portieri non esisteva e l’alternativa era trovare qualche allenatore in seconda che nella sua vita da calciatore aveva fatto il portiere. A me è successo durante gli ultimi due anni di carriera dove il secondo di Bruno Giorgi era Adriano Bardin, ex portiere di Cesena e Vicenza. I suoi consigli, mi furono molto utili.»
La sua carriera con la Nazionale è coincisa con quella di Dino Zoff che ha “monopolizzato” per diversi anni il posto di primo portiere, un po’ come è avvenuto in questi ultimi 20 anni con Gigi Buffon.
«Essere convocato in nazionale è sempre stato per me motivo di grande soddisfazione. In tutta sincerità ho sempre ritenuto giusto che il posto fosse di Dino Zoff. Nei due mondiali ai quali ho partecipato come giocatore ho fatto prima il terzo portiere alle spalle appunto di Zoff e Paolo Conti ( Argentina ’78 ndr) e ho partecipato come secondo, sempre di Dino Zoff, al mondiale di Spagna del 1982, dove conquistammo la vittoria finale. Credo, comunque, che in Nazionale la cosa più importante sia esserci per rappresentare la propria società di appartenenza. Poi, bisogna sapersi fare trovare pronti, di testa e di fisico, nel momento del bisogno. Situazioni come questa, inoltre, ti consentono di acquisire la giusta mentalità.»
Parlando di campionati mondiali, ha provato la soddisfazione di conquistarne due, uno come giocatore e uno come allenatore.
«Sono in questo momento l’unico giocatore italiano vivente ad aver conquistato un titolo mondiale in entrambe le vesti. Per raggiungere questi risultati serve sicuramente un pizzico di fortuna e la capacità di sapersi adattare nel ruolo. Due soddisfazioni con abiti diversi ma altrettanto importanti e gratificanti.»
Nella sua carriera ha avuto diversi allenatori. Con uno di questi, Eugenio Bersellini, arrivò lo scudetto nella stagione 1979/80, il secondo dopo quello del 1970/71, il primo da protagonista. Il mister era soprannominato “il sergente di ferro”. Era veramente così?
»Dovete pensare che Bersellini arrivò a Milano dalla Sampdoria dove l’anno prima era retrocesso. Figuratevi, quindi, quale fu l’accoglienza da parte del popolo nerazzurro. Era un uomo di poche parole che impiegò un po’ di tempo a studiare e capire noi calciatori. Appena arrivato cambiò subito i metodi di allenamento e di alimentazione. Le sedute atletiche erano molto intense e faticose mentre a tavola applicava un regolamento molto rigido. Riuscì a cambiare la nostra mentalità nei confronti del lavoro sul campo e alla fine venne ripagato dai risultati con uno scudetto e due Coppe Italia. L’appellativo “sergente di ferro” era anche dato dal fatto che dava molta poca confidenza anche se poi, alla fine, scoprimmo una persona con la quale era sempre possibile avere un confronto.»
Dopo diciasette anni, si è concluso il suo rapporto con l’Inter. Qualche rimpianto?
»Mi è dispiaciuto molto lasciare la società nerazzurra dove sono arrivato appena quindicenne e me ne sono andato che avevo 32 anni. Mi sarei aspettato quanto meno un trattamento diverso vista la mia lunga militanza senza mai creare nessun tipo di problema. In quei tempi non c’erano ancora i procuratori ed eravamo noi giocatori a gestire in prima persona le trattative. Sono rimasto dispiaciuto perché la dirigenza di allora, di fatto, non mi ha mai espresso direttamente il proprio pensiero. Ad un certo punto mi hanno fatto solo capire che avevano altri progetti. Peccato.»
Recentemente è uscita una sua autobiografia dal titolo “In presa alta” (edizioni Caosfera ndr) con la quale ha raccontato tutta la sua vita. Quanto è stato impegnativo ma, soprattutto, emozionante aprire un album dei ricordi come il suo, pieno di immagini e episodi densi di significati, sportivi e non solo?
«Un libro autobiografico era una cosa alla quale pensavo da tempo. Devo ringraziare nella fattispecie il giornalista Jacopo Della Palma, che mi ha aiutato a scriverlo, e il mio amico Gabriele Oriali, compagno di squadra all’Inter e in Nazionale, che mi ha preparato una preziosa prefazione. Il libro racconta tutta la mia vita partendo sin dai tempi dove giocavo al campetto dell’oratorio. Abbiamo pensato di suddividerlo in tre filoni: Il riscaldamento – che narra la mia infanzia fino all’approdo alle giovanili dell’Inter – il primo tempo – dedicato all’esperienza con la prima squadra – e il secondo tempo dove smetto l’abito di giocatore per indossare quello di allenatore dei portieri. Sono felice di aver esaudito il mio desiderio di un libro sulla mia vita. Naturalmente non c’è alcun fine di lucro, la soddisfazione più grande sono i riscontri positivi dei lettori che ho scoperto essere molti.»
Che tipo di portiere era Ivano Bordon?
«Ho imparato molto da Vieri. Secondo molti, addirittura, ci assomigliavamo. Sono sempre stato agile e reattivo, dotato di un buon senso della posizione. Quando giocavo io, comunque, ci si affidava prevalentemente alle proprie doti tecniche mentre ora, con un calcio completamente diverso e con la presenza di un allenatore specifico, la figura del portiere viene in un certo senso “costruita” nel tempo, grazie ad un lavoro molto specifico che consente di intervenire anche sui minimi dettagli.».
Si dice spesso che tra voi giocatori di quelli anni, i rapporti erano diversi. Nascevano in campo e si consolidavano anche fuori dal terreno di gioco, consentendo agli stessi di rimanere sempre vivi nonostante il trascorrere inesorabile del tempo.
«In quegli anni eravamo praticamente tutti italiani è questo, senza dubbio, ha facilitato le cose. Negli anni trascorsi all’Inter ci furono, poi, stranieri come Prohaska, un gran bravo ragazzo, o Hansi Muller, che pur essendo di nazionalità tedesca, sembrava quasi un italiano. Ancora oggi, comunque, noi tutti abbiamo una chat dove ci scriviamo quasi tutti i giorni. Ogni mese e mezzo ci troviamo sempre a cena, quasi sempre in Lombardia, visto che abitiamo tutti molti vicini tra di noi, C’è però Pasinato che, pur abitando a Cittadella, non manca mai di essere presente. Il nostro rapporto è veramente bello.»
Un’ultima domanda: quale è stata la sua parata più importante?
«Diventa molto difficile scegliere una parata su tutte. Sicuramente il rigore parato a Sieloff, nel famoso replay della partita con il Borussia che ci permise di passare il turno. A questa, però, aggiungo anche quella di un derby con il Milan, finita 0 a 0. In quell’occasione fu concesso a cinque minuti dalla fine al Milan un rigore. Io riuscii a respingere il calcio dal dischetto di Calloni, deviando anche la successiva ribattuta di Maldera.»
Ivano Bordon era soprannominato “il portiere gentiluomo”, un esempio di stile appartenente a un calcio che ora non esiste più e che molti ancora rimpiangono.
Se volete comunicare con PANATHLON PLANET, scrivete a:
segreteria.redazione@panathlondistrettoitalia.it
Le foto ed i video presenti su PANATHLON PLANET sono state in parte prese da Internet, e quindi valutate di pubblico dominio. Se i soggetti o gli autori avessero qualcosa in contrario alla pubblicazione, basterà segnalarlo alla Segreteria di redazione: segreteria.redazione@panathlondistrettoitalia.it, che provvederà prontamente alla rimozione delle immagini utilizzate.