–di Filippo Grassia (sporteconomy.it)–
La Serie A riprenderà a metà giugno, forse. Già un passo avanti rispetto alle titubanze, le perplessità, la demagogia e anche l’ipocrisia dei giorni scorsi che hanno coinvolto tutti gli attori di questa vicenda: dal premier Conte al ministro Spadafora, dalle Leghe agli stessi club. E pensare che alcune società rischiano il fallimento senza i proventi delle pay-tv. Ma c’è un problema di fondo, passato stranamente o volutamente in silenzio. Quasi un assioma.
Non esiste attività più sicura del grande calcio, mi riferisco in particolare alla Serie A e agli altri maggiori campionati europei. Quali lavoratori vengono controllati tanto accuratamente come Lukaku, Ibra, Chiesa, Chiellini e compagnia cantando che, oltre ad avere uno staff medico a loro piena disposizione, sono sottoposti a tampone due volte alla settimana e magari una terza alla vigilia delle partite? Un privilegio assoluto. Pensate a quanti aspettano un esame di questo tipo dopo essere stati accanto a persone positive al coronavirus: dalla gente comune agli operatori sanitari. E pensate anche agli operai che lavorano in fabbrica, e ci hanno lavorato anche nella fase più acuta, senza particolari protezioni. Il lockdown ha limitato la pandemia, ma non può trasformarsi in un paradigma a medio-lungo raggio. Oggi che si conosce meglio questo virus, sono migliorate le cure e si persegue l’obbiettivo del vaccino in oltre 100 laboratori, la vita deve riprendere il suo corso, anche se non sarà simile a quella “ante covid”. Altrimenti il collasso economico, già evidente in tutto il mondo, diventerà esiziale. A forza di perdere lavoro, la spesa alimentare è diventata un lusso per milioni di persone. E l’assistenza dei governi, che dovrebbe essere a “ombrello” e invece avanza a “macchia di leopardo”, non può andare avanti per mesi. L’economia obbedisce a leggi matematiche. Di qui la necessità di una riapertura importante e cauta allo stesso tempo.
A quale entità di rischio?, ecco la domanda cui dobbiamo rispondere dopo aver ascoltato i pareri spesso discordanti di virologi e infettivologi dediti alla fase mediatica più che a quella scientifica. Pronti a vendere verità senza basi oggettive: basta cambiare canale o trasmissione per infilarci in un labirinto senza uscita. In mancanza di certezze, il silenzio non è un’arma qualunque. “Ci vogliono due anni per imparare a parlare, e cinquanta per imparare a tacere”, scriveva Ernest Hemingway.
Di un aspetto però abbiamo certezza. Il calcio, a differenza di qualsiasi altro ambito lavorativo, è super garantito, Se non riparte il calcio, quale altra attività può riprendere? Nessuna. E poco importa che sia sport di contatto nel momento in cui scendono in campo solo atleti con tanto di plurimo tampone negativo. Ci troviamo di fronte a un’enclave a basso rischio di contagio. Quei calciatori che, per ragioni personali e timori vari, non vogliono tornare ad allenarsi, si mettano nei panni di quanti non possono permettersi una scelta di questo tipo. Ne prenda atto anche l’associazione dei calciatori, delegittimata perfino da un suo consigliere in Serie A e capace di fare sindacalismo retrivo nelle serie minori. Cosa dovrebbero dire gli operai e gli impiegati di una qualsiasi azienda che vanno al lavoro senza aver effettuato tamponi e, come armi di difesa, contano solo su mascherine e guanti, magari utilizzati oltre ogni ragionevole limite? In linea assoluta è corretto porre in isolamento una squadra a contatto con un calciatore positivo al coronavirus. Ma nessun ospedale ha chiuso i battenti in presenza d’un operatore sanitario positivo, e neanche le aziende hanno portato avanti un simile protocollo. E quindi. In quarantena vada la persona infetta, e il gruppo sia sottoposto a controlli ancora più stringenti.
A suo tempo, fin dal week-end a cavallo fra febbraio e marzo, mi sono battuto su Radio Rai1 contro quei soloni del pallone che cancellarono gl’incontri a porte chiuse nella ottusa speranza di rigiocarli nel breve a cancelli aperti e che poi volevano andare avanti come se nulla stesse accadendo. A quasi 3 mesi di distanza ritengo che si possa riprendere il filo del campionato in presenza di garanzie di cui non godono neanche medici e infermieri. Logicamente con gare a porte chiuse.
In questo periodo storico, che ha acuito problemi antichi con costi crescenti rispetto alle entrate, il calcio ha perso l’ennesima occasione di fare lobby. E il Coni non è riuscito a diventare il consulente scientifico del Governo: invece di dare indirizzi sui temi sportivi, li ha subiti. La vita cambia, lo sport non può restare uguale a prima.
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