–Cronaca di un soggiorno irripetibile (2)
–di Massimo Rosa–
Dunque una semplice sigaretta mi aveva fatto capire cosa c’era dietro a quel “Da”: c’era la voglia di un mondo diverso. A proposito di sigarette ricordo quelle fumate dai moscoviti con un bocchino lungo di cartone terminante con una corta sigaretta. Mi fu spiegato che il bocchino era dovuto agli spessi guanti che nel freddo inverno i moscoviti mettono alle mani, così quel lungo bocchino permetteva di fumare con i guanti senza così scoprire le dita.
I giorni che seguirono mi fecero scoprire una Mosca ufficiale, visitata assieme all’immancabile guida ed ai Tovarich italiani con tanto di fazzoletto rosso al collo con impresso in giallo falce e martello, ed un’altra che mi fece incontrare gente comune fuori dal coro. Per non dimenticare due episodi di cui fui orgoglioso ed incosciente protagonista.
Flash di ricordi nella capitale del Paradiso Sovietico
Avete presente le matrioske, quelle scatole di legno ad immagine di donna dalle forme rotondeggianti, quelle quasi interminabili de ne apri una e ne trovi un’altra? Ecco le stesse, in abiti dimessi e poco vivaci, erano quelle in carne ed ossa che tenevano pulite la città con le loro scope di saggina. Una visione non riscontrabile aldilà della Cortina di ferro.
Altro particolare che attirò la mia attenzione fu lo sguardo basso delle persone che volutamente non volevano incrociare il nostro, e questo faceva comprendere ulteriormente le difficoltà di quella gente. Solo qualcuno per la verità incrociandoci mormorava con un fil di voce “Italiansky”, comunque tirando poi dritto per la propria strada.
Gli incontri
Il mio soggiorno si arricchì di una nuova esperienza, quella del commercio. L’occasione nacque dall’incontro casuale nei pressi dell’Hotel Metropol con un georgiano dai baffetti alla Clark Gable che, fermatomi, si presentò con coraggio: “I ‘m a businessman”, sono un uomo di affari. Alla mia osservazione “No businessman in URSS only State Clerks” (Non ci sono uomini d’affari in URSS ma solo impiegati stato)
rispose “Yes but I ‘m an exception” (Sì ma io sono un’eccezione). Così iniziò una vendita proficua che mi riempì di rubli, praticamente regalandomi il costo del viaggio.
Fortunatamente, visto il mio proverbiale interesse di sapere, feci la conoscenza di altri moscoviti, tra questi anche una coppia di fidanzati, lui studiava italiano e lei francese, che mi spupazzarono per la città, quando riuscivo a squagliarmela dal pullman con la guida.
Tra quanto vidi in quei giorni mi colpirono sia le miserevoli vetrine vuote dei negozi che la grandeur dei magazzini GUM, anch’essi quasi privi di merce (comprai una piccola macchina fotografica imitazione della più nota Minolta giapponese, che conservo gelosamente), ma anche le lunghe fila per entrare nei rari bar. Noi le passavamo tutte perché stranieri e perché pagavamo in dollari.
Altro incontro divertente fu quello con un ingegnere, il cui sogno era quella di diventare un cowboy americano. Invece meno piacevole fu con uno studente somalo che parlava italiano, al quale cercarono di vietare l’entrata al bar dell’Hotel Metropol. Ne presi le difese in maniera forte (beata mia incoscienza giovanile) e lo fecero entrare. Lui mi disse che erano più onesti gli americani che ammettevano il loro razzismo contrariamente ai russi che fingevano di essere antirazzisti. Ma lo erano.
I DUE FATTI INCREDIBILI
La Via Gorki
In uno dei diversi giri della città ci fermammo nella via Gorki, un’arteria centralissima con traffico pressoché zero, dove la guida fatto il suo pistolotto sul palazzo settecentesco, che non ricordo se fosse il Soviet di Mosca o più semplicemente il comune, fece risalire sul pullman i gitanti, tranne il sottoscritto che se l’era sgaiattolata. Così, come un passero solitario, mi presentai alla garitta militare che controllava l’ingresso, chiedendo al piantone (avevo un vocabolarietto Italiano-Russo) se potevo entrare. Com’era logico non capiva il mio inesistente “Rusky”, così fatta una telefonata mi si presentò una biondina, la quale fortunatamente parlava inglese, a cui chiesi se fosse stato possibile visitare il palazzo. Passato il suo primo momento di stupore, in cui mi disse:” Non lo ha mai chiesto nessuno”. Mi fece attendere un attimo in un corridoio, riapparendo con un sorriso tipo Emoticon d’oggi ed invitandomi a seguirla per la visita.
Il palazzo era splendido e lo filmai con la mia 8 mm Kodak. Ricordo che salimmo uno scalone ed apertami una grande porta entrai in un salone dove, seduti ad un grande tavolo, c’erano degli uomini immersi in una riunione. Alla loro vista mi sprofondai in un profondo inchino ricambiato a loro volta con il capo.
Quindi la visita continuò sino al momento del mio congedo che non dimenticherò mai, come immagino la biondina.
La Piazza Rossa
Il 1° maggio, giorno che noi dedichiamo ai lavoratori, nell’Unione Sovietica era dedicata alla Festa della Primavera (Non so se lo sia ancora).
Quella mattina c’imbarcarono sui pullman per raggiungere la postazione assegnata agli italiani a circa un centinaio di metri dal Kremlino. Arrivammo tutti intruppati e quindi divisi a gruppi da transenne. All’improvviso si mise a nevicare. I Tovarich italiani cominciarono ad agitarsi, tanto che rompendo l’ordine, sotto gli occhi increduli dei moscoviti, trovarono e trovai riparo al caldo nell’hotel che ci stava di fronte. Neanche a dire la forza delle penne Bic e delle chewingum ci permisero di sederci comodamente in un salone del primo piano da cui potevamo vedere la sfilata. I Fiori di carta, i cartelli antiamericani, affamatori dell’Urss, i canti, e poi la tanta tanta gente finalmente sorridente risvegliarono in me la temerarietà. Cosi scesi in basso, uscii dalla porta, passai sotto la transenna e mi unii alla sfilata cantando “Oh Natascia hai fatto tu la p….a, sì Dimitri ne ho fatto cento litri…”, tra i sorrisi di approvazione dei Tovarich sovietici, ignari delle parole provocatorie adattate ad una canzone russa. Arrivando così nella Piazza Rossa, felice di avere avuto tanta incoscienza per questa esperienza che sarà per sempre scolpita nella mia memoria, e che sarei pronto a ripetere. Se l’età me lo permettesse. (Fine)
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