–di Massimo Rosa–
Oggi è il giorno di Pasqua, e mi ero detto di non scrivere per fare riposare la mente, la mano e la vista. Così è stato sino ad inizio del pomeriggio quando, buttando un occhio distrattamente sulla Gazzetta, il mio sguardo è rimasto attratto dal titolo “Pasqua senza Roubaix”. Accidenti mi sono detto, è vero. E’ una corsa che mi ha sempre attratto, come tutte quelle sul pavé o le strade sterrate. Poiché mi piace la storia, qualcuno di voi che mi segue se ne sarà anche accorto, sono andato a cercare le origini di questa famosa corsa, così ve la racconto.
Correva l’anno 1885 quando, due industriali di Roubaix, Theodore Vienne e Maurice Perez, dettero inizio alla saga della celebre corsa.
In quel Fin de Siècle si stavano registrando una serie cambiamenti sociali nel nostro continente, tra questi anche di costume.
Tra le novità del tempo vi era infatti la bicicletta, ritenuta “uno strumento per superare la discriminazione tra i sessi”, come affermava Emile Zolla, il giornalista-scrittore italofrancese. Infatti la biciletta era soprattutto considerata uno strumento del demonio se inforcata da gambe femminili.
Dunque la bicicletta era il moderno cavallo. Era il divertissement della buona società Roubaisienne nel parco Barbieux. Così i due, intuito l’affare, costruirono un Vélodrome, che ben presto divenne molto frequentato dai mordue (i patiti) della bicicletta del Nord della Francia. Esso aveva una pista in cemento lunga 333,33 metri. Il giorno della sua inaugurazione alla presenza di un folto pubblico, arrivato un po’ da tutta la regione, si corsero 7 gare. In questo modo il ciclismo muoveva i suoi primi passi e, sul finire di quel fine secolo, avevano preso piede maggiormente le gare su pista, perché più immediate da seguire che quelle sulle strade lastricate dal pavé o addirittura sterrate.
I due industriali, sulle ali del successo, pensarono bene di valorizzare il loro Vélodrome dando vita alla Parigi-Roubaix, grazie anche all’appoggio del giornale Le Vélo, a cui fu affidata l’organizzazione. Ad interessarsi in prima persona fu incaricato il redattore della rubrica di ciclismo Victor Breyer, che ne studiò la fattibilità. Breyer con il collega Paul Meyan, a bordo di una Panahard-Levasseur 6cv, si recò ad Amiens. Da lì inforcò la bicicletta e, pedalando sotto una pioggia battente, ritornò a Roubaix, più morto che vivo dalla fatica, dopo avere pedalato per 130 chilometri sul duro, anzi durissimo, pavé.
All’arrivò esclamò: “C’est un project diabolique, pas possible” affermò, archiviandolo perché troppo pericoloso per i corridori. Poi è risaputo che la notte porta consiglio, così il giorno dopo, una volta smaltita la fatica, si ricrebbe.
Vienne e Perez pensarono bene di fare disputare la prima edizione il giorno di Pasqua: “Apriti cielo”, la Chiesa insorse: perché al settimo giorno Iddio riposò ed i fedeli dovevano santificarne la giornata andando a messa, cioè ciclisti e spettatori. I due industriali non si scomposero trovando una cappella nelle vicinanze del Vélodrome. Tutto era risolto se non che, piccolo particolare, la partenza era alle 4 del mattino, così la messa non fu mai celebrata. E si partì lo stesso.
La prima edizione però non si tenne il giorno di Pasqua ma il 18 aprile 1896, solo dalla seconda edizione si disputò a Pasqua.
Di quella prima edizione il primo vincitore non fu un francese bensì un tedesco, tale Josef Fischer, che inflisse distacchi di ore agli stremati avversari, tranne ai primi quattro che contennero il tempo in un’ora. Tra gli iscritti, anche se poi non partecipò, Henri Desgrange, ideatore del Tour de France.
Oggi, Pasqua 2020, sarebbero stati 124 anni da quella prima volta, ma il maledetto virus ha detto di no. Au revoir à la prochaine année.
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