di Tonino Raffa
Può un microfono rappresentare il passaporto per l’immortalità? Dipende. Se parliamo di un microfono che, a partire dagli anni trenta, ha raccontato tremila partite, otto edizioni dei mondiali e tutte le imprese della nazionale italiana di calcio fino al 1970, allora dobbiamo dire di sì. Quel microfono era di Nicolò Carosio. Sono passati quarant’anni da quel 27 settembre del 1984, giorno nel quale è calato il sipario sulla vita del mitico Nick. Ma se guardiamo quel microfono (un modello uguale si può ammirare a Torino al museo dalla Rai) e riavvolgiamo il nastro, la scena, ancora e per sempre, sarà tutta sua. Unico, inimitabile, elegante, passionale, permaloso, è stato il capostipite di tutti noi e la sua rimane una leggenda senza tempo. Ricordarlo nella stagione in cui la Radio festeggia i cento anni e la Tv ne celebra settanta, è un dovere. Significa che c’è una memoria collettiva che resiste e la memoria è vita come diceva lo scrittore Giorgio Scerbanenco. Nato a Palermo nel 1907, figlio di un ispettore di dogana di origini genovesi e della pianista inglese Josy Holland, Carosio, in ragione del lavoro del padre, viaggiò moltissimo e, frequentando gli ambienti britannici, fu presto contagiato dalla passione per il calcio. Cominciò a collaborare con alcune pubblicazioni e a organizzare amichevoli all’istituto dei salesiani di Torino. Finchè, durante un nuovo soggiorno inglese sentì Herbert Chapman, il celebre inventore del “sistema”, commentare una partita alla radio subito dopo la conclusione. Rimase folgorato e in quel momento scoccò la scintilla : ma non è meglio raccontare in diretta? Mentre studiava giurisprudenza, trovò un lavoro di ispettore alla Shell. Ma il tarlo si era già insinuato forte in lui. Cominciò ad esercitarsi nel retrobottega di un negozio di elettrodomestici finchè all’inizio del 1932, incoraggiato da Emilio De Martino, all’epoca capo dei servizi sportivi al Corriere della Sera, scrisse all’Eiar (l’ente antenato della Rai) chiedendo di essere sottoposto a un provino. Il giovanotto fu convocato nel maggio successivo : “dimostri quello che sa fare”. Lui inventò a braccio una partita tra Juventus e Bologna “colorandola” con la frenetica descrizione di tante emozioni e parlando per un quarto d’ora senza fermarsi. Congedato con la canonica espressione “Le faremo sapere”, venne convocato qualche settimana dopo per una nuova prova, questa volta a circuito chiuso, in via Arsenale. Si concluse con i complimenti della commissione e del direttore generale Chiodelli. Era nata la radiocronaca. Carosio ricevette il telegramma di ok qualche settimana dopo e non si fermò più : prese per mano il destino e lo portò dalla sua parte. Il debutto avvenne al Littoriale di Bologna il primo gennaio del 1933 in occasione dell’amichevole Italia-Germania, finita col punteggio di tre a uno per gli azzurri. La sua voce aveva una intonazione epica : espressioni secche (“Rivera, alzarsi e camminare”), mai un giudizio tecnico, descriveva le gare della nostra nazionale come una battaglia navale. Tutto era dettato dal cuore che batteva sempre per l’Italia anche nelle partite più sciatte o dominate dagli avversari. A Nicolò va dato il merito di aver inventato di sana pianta il linguaggio del radiocronista, anche per una necessità pratica. Allora la terminologia era quasi tutta di origine britannica e il regime di Mussolini non gradiva l’uso di vocaboli in lingua straniera. Il “mani” lo inventò lui dall’inglese “hands”, poi coniò “rete” in luogo di “goal”, “angolo” invece di “corner”, “traversone” per “cross”. Nacque così un nuovo dizionario e si aprì un’era grazie al “signor radiocronaca”. Bastava girare la manopola per proiettarsi in uno stadio lontano : “E’ Nicolò Carosio che vi parla e vi saluta”. Tutto con voce appassionata, mai lasciando intuire le condizioni proibitive in cui era costretto a lavorare, con apparecchiature recalcitranti, esposte alle intemperie. “Arrivava allo stadio intabarrato con cappello, cappotto e sciarpone – ricorda Ezio Luzzi nel suo libro autobiografico Tutto il mio calcio minuto per minuto– entrava sul terreno di gioco, prendeva posto su una sedia sistemata a bordo campo davanti al microfono e cominciava a raccontare l’incontro”. Lo commentava in maniera del tutto personale. Cioè come lo avrebbe voluto vedere lui. Più o meno una versione d’antan dell’immaginazione al potere. La sua consacrazione internazionale avvenne con i mondiali vinti dall’Italia di Vittorio Pozzo nel 1934. Ma furono memorabili, per enfasi e ritmo, anche le radiocronache dell’edizione successiva, vinta nel ’38 a Parigi. In tutto il Paese si formavano gruppi di ascolto davanti agli apparecchi piazzati nei bar, nelle tabaccherie, nelle piazze, davanti alle edicole. In quel campionato del mondo a Nicolò riuscì anche la prima intervista in diretta. Incrociò Meazza a bordo campo prima della gara col Brasile. Lo bloccò. Lo fece parlare e milioni di italiani sentirono il “Balilla” che prometteva la vittoria. Promessa mantenuta. Poi negli anni cinquanta e sessanta arrivò la televisione. Abituato a raccontare sempre una partita tutta “sua”, cominciarono le difficoltà. Cercò di adattarsi al nuovo mezzo, lo fece con grandissimo impegno ma I maligni non gli perdonavano la minima imperfezione. A differenza delle tante comodità arrivate dopo, con annesse le più sofisticate tecnologie, Carosio non aveva il replay sul monitor, le riprese venivano fatte con due sole telecamere contro le sedici o venti di oggi. In sostanza aveva solo i suoi occhi e ogni telecronaca era come un volo senza paracadute. Tante espressioni sono rimaste scolpite nella memoria di ciascuno. La più celebre : “Quasi gol” per sottolineare un’azione con la palla che finiva di una inezia fuori bersaglio. Quando cominciò a sbocciare una nuova generazione di radiotelecronisti, Carosio iniziò a soffrire la sindrome dell’accerchiamento e a manifestare gelosia. Soprattutto verso il suo vice, il nuovo astro nascente, Nando Martellini. Lo chiamava “Il Martellante” e diceva : “non avrà mai il mio scalpo”. E invece, involontariamente, lo scalpo glielo consegnò lui stesso nel giugno del 1970, ai mondiali di Città del Messico. Durante la partita Italia – Israele, stizzito per gli errori del guardalinee etiope Torekegn, che aveva fatto annullare per fuorigioco un gol di Gigi Riva, contestò con toni forti l’operato dall’assistente dell’arbitro. Anche se non usò una espressione razzista (non disse mai “cosa vuole questo negro”) venne accusato di razzismo. Fu una menzogna storica (smascherata molti anni dopo da un collega meticoloso come Massimo De Luca con l’aiuto del più preparato dei documentaristi Rai, Pino Frisoli), ma la sua amplificazione mediatica, originata da giudizi sprezzanti raccolti in tribuna stampa tra i colleghi italiani (qualcuno. ironicamente, disse “è la vendetta del Negus”) scatenò un caso diplomatico. Quei giudizi vennero attribuiti frettolosamente a Carosio. Immediate le proteste dell’ambasciata di Etiopia a Roma. La Rai, fu costretta a intervenire, lo fece con un lapidario ordine di servizio : “Carosio deve rientrare”. Gli altri inviati (Ameri, Martellini, Albertini e Pizzul) furono compatti e solidali : ” se esce Carosio torniamo tutti”. Fu così che la direzione ripiegò : “Carosio resta ma non seguirà l’Italia”. Martellini venne dirottato sulla storica semifinale contro la Germania, al mitico Nicolò toccò Brasile-Uruguay. Lui visse la vicenda come una pugnalata e una umiliazione immeritata. Al ritorno in Italia restò a testa bassa per tutta la durata del viaggio. Lasciò la Rai nel 1971 e non fu un addio indolore. Fece causa all’azienda che, ben sapendo della sua posizione di dipendente di una società petrolifera, per oltre 35 anni lo aveva retribuito come collaboratore e non come inviato e radiotelecronista. Un assurdo. Il magistrato del lavoro gli diede ragione e la Rai dovette pagare. Sono passati quarant’anni e oggi il mito di Carosio rivive in teatro per merito di Massimo De Luca ex conduttore di “Tutto il calcio minuto per minuto” e della “Domenica sportiva”. Manco a dirlo lo spettacolo, con la regìa di Marco Caronna, ha per titolo “Quasi gol” ed è lo stesso De Luca a interpretare Carosio sulla scena. E’ una cavalcata lungo un arco temporale che abbraccia il fascismo, la guerra, la ricostruzione, la tragedia di Superga (alla quale il nostro sfugge saltando la trasferta per festeggiare la cresima del figlio), la lenta rinascita della nostra nazionale dopo il vuoto generazionale apertosi con la scomparsa del grande Torino, fino ai mondiali del ’70 quando la carriera di Carosio subisce un ingiusto stop a causa di un equivoco che, come dicevamo, scoperto a distanza di tanto tempo, rende più gigantesca la figura di Nick. Infine una cosa appare certa : con il calcio di oggi -spezzatino settimanale, Var, procuratori, pay-tv, mercato impazzito, seconda voce nelle telecronache- Carosio non sarebbe mai andato d’accordo. Avrebbe mandato tutti a quel paese, con un’altra delle sue frasi celebri : “Ora basta. Andiamo a bere un bel whiskaccio”. Una battuta che riapre lo scrigno dei ricordi, ci regala una boccata di gioventù e un sorso di nostalgia. Di quel whisky non abbiamo mai conosciuto la marca. Ma è diventato lo stesso il più famoso al mondo.