Caterina Venturini, ragazza di 18 anni, allieva del Liceo Scientifico Belfiore di Mantova ad indirizzo sportivo, ha vinto con la sua classe il Premio Coni Cultura e Sport. Con questo articolo, Caterina comincia la collaborazione con PANATHLON PLANET, ricordando il 98° anniversario della prima storica vittoria al Tour de France di Ottavio Bottecchia.
Auspicando che la nostra testata possa fare nascere una futura promettente giornalista, le diamo il benvenuto nella nostra famiglia.
Massimo Rosa/Direttore
di Caterina Venturini
Ricorre il 20 luglio il 98esimo anniversario della prima storica vittoria di Ottavio Bottecchia al Tour. La sua fu una breve ma folgorante stagione, contrassegnata dalla tragica (e misteriosa) morte che interruppe una carriera da autentico fuoriclasse. Basti pensare che al debutto, nel 1923, fu secondo al Tour alle spalle del suo capitano Charles Pellissier mentre si impose alla grande nelle due edizioni successive. Bottecchia fu anche il primo ciclista a indossare la maglia gialla al Tour dal primo all’ultimo giorno. In realtà anche Maurice Garin era stato il leader in tutte le sei tappe della prima storica edizione del Tour (1903), tuttavia a quei tempi non esisteva ancora la maglia gialla (la prima maglia gialla sarebbe stata indossata formalmente da Eugène Christophe, il 19 luglio 1919), ma un bracciale verde.
Al Tour de France 1924 parteciparono 157 corridori divisi in tre classi (prima, seconda e cicloturisti), dei quali 60 giunsero a Parigi. Bottecchia fu anche il corridore che vinse il maggior numero di tappe in questa edizione del Tour, quattro su un totale di quindici compresa l’ultima, la Dunkerque-Parigi. Erano tappe lunghissime, di 361 chilometri di media, quanto basta a comprendere la fatica immane che attendeva i corridori. Ottavio Bottecchia, rispetto a tutti gli altri, aveva una prerogativa in più: sapeva esorcizzare la fatica, aveva limiti di resistenza al dolore sovrumani.
È difficile da descrivere a parole la sensazione che si prova quando si è al limite delle proprie forze, a batteria scarica, il corpo atrofizzato dal dolore e ormai insensibile. Tutto diventa sopportabile e insopportabile allo stesso tempo ma nonostante ciò l’idea di cedere, di arrendersi, di rallentare, non è accettabile. È proprio in quel momento che bisogna dare il massimo, accelerare e buttare fuori tutta l’aria che si ha nei polmoni. Non è cosa da tutti, è cosa da leggende, da miti, da Ottavio Bottecchia.
Il legame con il pedale non nasce con il Muratore del Friuli perché Ottavio, come tanti della sua generazione, prima di masticare chilometri deve imparare a masticare la povertà e le sue regole di sopravvivenza. Da qui il soprannome di Muratore del Friuli, legato alle sue origini, quelle radici da sempre sinonimo di sudore e fatica.
Quella di Ottavio non è una storia romantica, la sua passione non nasce a caso, l’incontro con il pedale avviene invece per obbligo, chiamato alle armi come bersagliere e poi convertito in “esploratore d’assalto”, Ottavio era un uomo capace di farsi e fare luce ovunque si trovasse, portando al collo in primis la medaglia più importante di tutte, quella intangibile, che non viene assegnata per forza al primo, ma che può vincere anche l’ultimo, la medaglia dell’uomo, quella dei valori.
Vero pioniere in grado di portarsi davanti a tutti, unico capace di farsi inseguire seguendo solo sé stesso, i propri istinti, gli obiettivi, le idee, il vento. Ciclista dalle infinite sfumature, Ottavio è il primo italiano a tingersi di giallo per tutto il Tour de France, aggrappato alla maglia, deciso a non spogliarsene, quella maglia che è la sua seconda pelle: vince da dominatore la corsa francese per due anni consecutivi, nel 1924 e nel 1925. Scalatore di classifiche e di montagne, instancabile lavoratore, fusione di ingranaggi e fibra muscolare rossa e bianca, indomabile domatore, Ottavio è l’uomo capace di non staccare lo sguardo dall’obiettivo, neanche per un secondo, neanche per una corsa. Ed è proprio questo che lo porta fino ai giorni nostri, con un’aura di ammirazione, di rispetto, di passione, di invidia, di mistero. Quel mistero che lo avvolge dal 3 giugno 1927, il giorno dell’incidente, il giorno in cui ha smesso di esistere Ottavio Bottecchia, il giorno in cui è nato il mito, Ottavio trovato moribondo per strada, quella strada che ormai era casa, rifugio, quotidianità, con la sua compagna fedele, la bici. Ma a fermare il Muratore del Friuli c’è riuscita solo la morte, unica sfidante che non è riuscito a staccare, l’unica che è riuscito a prenderlo, ma non a superarlo, perché se così fosse non lo staremmo raccontando ora. Meraviglioso l’uomo e la sua memoria, unica àncora di storie capace di superare qualsiasi limite di tempo e di spazio, unica bici su cui Ottavio Bottecchia non smetterà mai di pedalare, macinando menti, passioni, cuori.
È così che lo sport diventa vettore di vite, di storie, di esempi, di valori, unico specchio in grado di riflettere un’immagine diversa dalla realtà; mezzo di fuga per chiunque debba scappare, ci permette di parlare del presente attraverso il passato, e viceversa. Ecco come Ottavio Bottecchia, il Muratore del Friuli, cavaliere valoroso dentro e fuori il campo di battaglia, è potuto arrivare fino ai giorni nostri, ecco come lo sport garantisce l’eternità a chi sa garantire l’eternità allo sport.
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