Di Romano Mattè – Redazione Panathlon Gianni Brera Università di Verona
Nel nostro calcio si confrontano due filosofie tattiche: quella dei cosiddetti “risultatisti” (i testimonial più importanti son Allegri e Conte) e quella dei “giochisti” o degli “estetizzanti” (il guru è Sarri con alcuni giovani adepti, vedi De Zerbi e Dionisi). Le società italiane hanno capito che il business sta nel gol: deve essere prodotto un calcio più spettacolare, più divertente, più accattivante e quindi più spendibile sulla piattaforma mediatica mondiale, dove siamo passati al quinto posto superati anche dalla Francia.
Pochi hanno sottolineato un dato molto significativo: dopo ben undici campionati la classifica dei marcatori è vinta solo da giocatori che militano nelle squadre di vertice e che puntano decisamente allo scudetto o alle Coppe europee. Tutto questo ci indica che il gioco, al di là di una falsa narrazione mediatica e cartacea, è profondamente cambiato, si è essenzializzato, velocizzato, verticalizzato per consentire ai propri attaccanti di segnare di più. Proprio questa è la vera trasformazione che si è prodotta al di là dello scontro tra le due filosofie di gioco.
Il livornese Allegri è un “risultatista”, allena i giocatori, mette in campo quelli più in forma e quelli più adatti a vincere quella determinata partita. Ogni gara è presa a sé stante e pertanto si precisa un massiccio ricorso al turnover (più del 25% rispetto a Sarri) con una conseguente maggiore e più equa distribuzione del dispendio psico-energetico su tutta la rosa a disposizione. Max ama un calcio essenziale, concreto, poco dialogato, tutto teso al risultato; se poi riesce a coniugarlo con lo spettacolo, tanto meglio. Ricordate il paradigma bonipertiano? “Il risultato non è la cosa più importante ma è la sola cosa che conta!”. E sempre sul solco bonipertiano citiamo l’ultima esternazione di Max: “Conta solo il risultato, per lo spettacolo c’è il circo”.
Sarri, dal canto suo, è un “giochista”, mette in campo i giocatori più in forma e quelli che melio interpretano le sue idee, il suo credo tattico; aspira a coniugare il bello con il concreto, cioè con il risultato. Il “giochismo” è un calcio ideologico che, come tutte le ideologie, tende ad accecare, è una forma di integralismo tattico che non fa sconti: o il tutto o il nulla, o la vittoria o la sconfitta, senza vie di mezzo. L’allenatore è come preda di una follia creativa, di un’autarchica ossessione, come quella che implode nell’artista allorché si accinge a creare un capolavoro. Nella Juve sarriana è bastata la presenza ingombrante di un giocatore di grande carisma e personalità come Cristiano Ronaldo perché l’integralismo fosse costretto a scendere a patti con la realtà costringendo il tecnico a rinunciare in parte alle proprie idee. Del Napoli sarriano, in quella Juve poi vincente, vi è stata solo una pallida traccia.
Detto della contrapposizione tra le due filosofie di gioco, quale di queste è stata abbracciata a suo tempo da Juric ed è ora prerogativa di Tudor? Per le caratteristiche atletico-tecnico-caratteriali che sia Juric che Tudor prediligono nella scelta degli uomini, per la ferrea, rigorosa, maniacale organizzazione tattica soprattutto nella fase di non possesso palla, per la dura metodologia di lavoro, per la scelta da parte di entrambi di costruire prevalentemente sul “lungo” anziché “dal basso”, ritengo che i due tecnici croati siano essenzialmente dei “risultatisti”. Il loro calcio talvolta è pure bello da vedere ma di per sé stesso non possiede l’estetica come fine bensì come mezzo; può risultare a volte spettacolare, quando gli uomini sono al top della condizione ma il gioco è teso essenzialmente al risultato, il che la dice lunga: non si tratta di una ricerca della poesia ma, da parte di entrambi, di una realistica, nobile e talvolta anche umile vocazione alla prosa.
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