Il sistema sportivo corrotto contro Alex Schwazer raccontato per la Rizzoli con la prefazione di Attilio Bolzoni- L’incipit nella lezione etica di Walter Bragagnolo.
di Adalberto Scemma – REDAZIONE G. Brera Università di Verona – Area1 Veneto Trentino/AA
E’ uscito, lungamente atteso, il libro-documento di Alessandro Donati sul “caso Schwazer”, il più clamoroso tra tutti gli scandali che hanno inficiato il mondo dello sport negli ultimi anni. Esaustivo il titolo: “I signori del doping”, ancora più esaustivo il sottotitolo: “Il sistema sportivo corrotto contro Alex Schwazer”. Ma c’è di più: i tipi non sono quelli di un editore di nicchia, peraltro ampiamente meritevole di attenzione, come il Gruppo Abele-Libera di don Ciotti (con cui Donati ha pubblicato nel 2013 il best seller “Lo sport del doping-chi lo subisce, chi lo combatte”) bensì quelli di un colosso come la Rizzoli. Il segno evidente di un cambiamento di rotta epocale anche nel sistema, spesso occultato, della comunicazione? Teniamoci stretto, per quanto possibile, il piacere dell’evidenza senza indagare oltre tra i meandri di un Sistema (S maiuscola, stavolta) che talvolta-spesso-mai, cambia come un Gattopardo esiziale perché tutto rimanga invariabilmente come prima.
“Un documento unico per capire il nostro tempo e le sue pericolose e spietate storture”: così la Rizzoli, in quarta di copertina, presenta sinteticamente il libro, che si avvale della prefazione appassionata e documentata di Attilio Bolzoni, editorialista e inviato speciale de “La Repubblica”. E proprio Bolzoni descrivendo l’incipit tra Schwazer e Donati, parla di “un incontro tra due emarginati”, il campione caduto nel fango con il desiderio di riprendere il suo onore e il grande allenatore isolato dal potere sportivo per le sue violente denunce: “Il branco come avrebbe mai potuto tollerare questo legame dagli imprevedibili effetti? E come avrebbe mai potuto perdere quest’occasione? Far fuori tutti e due in un colpo solo: con una provetta”.
Il libro possiede una prerogativa che lo rende affascinante già a una prima frettolosa lettura: ha il ritmo serrato della spy-story. “E’ la realtà che supera la fantasia: un vile e sporco agguato che ha fatto saltare ad Alex l’Olimpiade di Rio 2016, e poi falsificazione di provette, menzogne su menzogne e un intrigo internazionale che porta fino in Russia per un giro d’affari stellare. E alla fine l’innocenza di Alex viene riconosciuta dalla giustizia ordinaria -la Procura di Bolzano- ma non dalla giustizia sportiva!”.
Qual è, ci si chiede, il senso di tutto ciò? Lo si scopre leggendo un libro che, come scrive Bolzoni nella prefazione, “è saggio, è narrazione, è atto di accusa ma soprattutto è l’eredità preziosa che ci lascia uno dei grandi personaggi dello Sport contemporaneo. La spaventosa storia di Alex Schwazer, il testamento di Sandro Donati”.
Questo l’explicit. Ma a intrigare chi segue lo sport attraverso la via maestra, quella dell’etica, quella del piacere sublime del confronto con gli altri ma anche con sé stessi, non può non essere la ricerca dell’incipit. Quando e come è cominciata l’avventura di Sandro Donati nel territorio del doping? Quale, soprattutto, è stata la scuola che ha acceso in lui la fiamma della conoscenza? Ecco un argomento, di estrema attualità e quindi di estremo interesse mediatico, che sarà al centro della giornata sullo sport in programma a Campitello di Fassa il 7 agosto prossimo a cura dell’Amministrazione comunale.
Lo spunto è offerto dalla presentazione del libro “Il Profe che insegnava a sbagliare” (edito da Fuorionda), dedicato alla figura straordinaria Walter Bragagnolo, idealista e provocatore, che creando il visionario “Metodo di amplificazione dell’errore” ha innovato l’attività di ricerca sul movimento umano. Il prof. Ivo Bernard, sindaco di Campitello, già allievo di Bragagnolo, ha chiamato a raccolta gli studiosi di quel periodo, tutti animati dal sacro fuoco della conoscenza, per raccontare in libertà “storie mai raccontate prima”. Tra questi anche Sandro Donati, che non sarà presente per incombenze di carattere familiare e che ha segnalato tuttavia, con tempismo perfetto, l’uscita de “I signori del doping” affidato per l’occasione all’analisi di Romano Mattè, che da molti anni a questa parte cura le lezioni sul doping nell’ambito dei corsi di giornalismo e letteratura sportiva presso la Facoltà di Scienze motorie dell’Università di Verona.
Dicevamo dell’inizio dell’avventura tortuosa di Sandro Donati nel territorio del doping. Non è un segreto: Donati ha avuto proprio in Bragagnolo, da lui descritto come “eretico da medaglia” un nume tutelare all’inizio della sua attività di allenatore e di studioso. E allora ecco qui riproposta la splendida intervista realizzata da Francesco Barana e pubblicata nel libro “Il Profe che insegnava a sbagliare” (sezione “La strada della ricerca”). Il titolo del capitolo, non certo casuale, è “Eretici da medaglia”:
Anni di battaglie. Di fronte comune. «Con Bragagnolo abbiamo lottato assieme contro il doping e la deriva dell’allenamento quantitativo di stampo sovietico che induceva gli atleti ad assumere anabolizzanti».
Sandro Donati, 72 anni, storico allenatore di atletica leggera -dal 1977 al 1987 anche della Nazionale italiana e oggi responsabile della metodologia dell’allenamento del Coni in vista delle Olimpiadi di Tokyo del 2021- simbolo della lotta al doping e tornato alla ribalta in questi anni per la strenua difesa del marciatore Alex Schwazer dopo il (controverso) caso della sua positività nel 2016, ha un ricordo intenso del prof. Walter Bragagnolo. Erano gli anni 70. «Non che ci frequentassimo molto, ci saremo visti una ventina di volte, ma quelle sono state importanti per la mia formazione. Quando ci incontravamo parlavamo a lungo, c’era comunanza di vedute, lui allenava Sara Simeoni e ci raggiungeva nelle trasferte con le squadre nazionali…».
-Che ricordo ne ha?
«Io ero un giovane tecnico emergente, lui già un’istituzione. Bragagnolo, con Russo, Vittori e Matteucci, ha dato un’impostazione all’atletica italiana».
-Eravate della stessa scuola di pensiero…
«Allora costituivamo una minoranza critica all’interno della Federazione, sostenevamo l’allenamento qualitativo e avevamo una lettura comune riguardo la presenza del doping diffuso nell’atletica. Ma Bragagnolo anche come preparatore rappresentava un qualcosa che oggi purtroppo in parte si è perso».
-Nello specifico?
«Lui apparteneva a una nidiata di insegnanti ISEF formati molto bene, che sapevano unire conoscenze teoriche e pratiche. Bragagnolo aveva profonde conoscenze della biomeccanica e nello stesso tempo disponeva di un occhio formidabile che gli permetteva di cogliere all’istante l’essenziale del movimento dell’atleta».
-Non è più così?
«Oggi manca l’equilibrio tra teoria e pratica. Purtroppo molti allenatori non sono laureati in Scienze Motorie (lo sbocco nell’atletica non conviene più economicamente) e sono privi delle giuste conoscenze teoriche; ma anche a Scienze Motorie, perlomeno in alcune facoltà, noto che si dà troppo peso alla teoria e questo toglie capacità di osservazione e di correggere l’atleta sul momento. Infine la Federazione negli anni ha reclutato gli allenatori spesso con logiche clientelari e non meritocratiche».
-Risultato?
«Registro una perdita tremenda per il nostro mondo. Rispetto ai tempi di Bragagnolo o dei miei inizi, gli allenatori di adesso grazie alla tecnologia dispongono di un quantitativo di dati impressionante, il problema è che non sempre sono bravi a contestualizzarli e a interpretarli. Questo conduce a commettere un errore a monte».
-Quale?
«Si tende a separare la forza dalla tecnica, come fossero due elementi separati che poi magicamente si combinano tra loro. Ma non è così, se lavoro sulla forza devo farlo già in funzione della complessità della tecnica di quello sport, ciò significa che devo compiere la scelta giusta sui carichi di lavoro e il tipo di esercizi. Purtroppo non si conosce a fondo l’anatomia e la biomeccanica e stiamo smarrendo il vasto patrimonio di conoscenza del preatletismo generale e specifico, quindi la gamma di esercitazioni a carico naturale. Insomma, assistiamo ancora una volta alla deriva della quantità e della forza fine a sé stessa».
-Il metodo quantitativo arrivò in Italia a fine anni 70 importato dall’Urss. Lei e Bragagnolo, come ricordava prima, eravate minoranza critica nel contrastarlo…
«A Mosca c’ero stato, avevo visto con i miei occhi e capito subito il loro sistema: sovraccarichi di lavoro e l’atleta portato sopra la soglia di uno stress continuo e insostenibile. Da lì la strada verso gli anabolizzanti era conseguenziale. In Italia per troppi anni si è taciuto, c’è stata grande ipocrisia, io nel 1987 fui escluso dalla Nazionale per le mie denunce. Sono stato ripescato solo di recente da Malagò, con la somma sorpresa dei molti miei nemici che mi credevano finito, morto e sepolto».
-Ci fu la denuncia e il pentimento di Sergio Zanon (preparatore e traduttore dei libri sovietici) a «Il Gazzettino» nei primi anni 2000, ricorda?
«Fu un’eccezione. Lui comunque per certi versi fu vittima di quel sistema, ma poi ebbe coraggio a pentirsi e a denunciare, seppur timidamente. Ma quanti altri facevano e non hanno mai detto niente? Ancora oggi si celebrano record abbastanza ridicoli e fasulli».
-L’impressione però è che l’industria del doping sia sempre un passo avanti all’antidoping.
«Non diamo una patente di scientificità al doping. Il doping è solo terra di personaggi tristi, che ci arrivano per emulazione. Gli allenatori che prendono queste scorciatoie appartengono a un gregge dalle scarse competenze che cerca la soluzione magica».
-Lei, simbolo della lotta al doping, nel 2016 si è trovato Schwazer, che in quel momento allenava, positivo per la seconda volta. Un caso controverso, dove i sospetti di manomissione delle provette sono forti. Da anni è in prima linea per difenderlo.
«Alex lo alleno ancora, non ho perso la speranza di portarlo alle Olimpiadi nel 2021. Oggi è anche più forte di quattro anni fa. Lo hanno inchiodato sul suo errore del 2012. Allora la squalifica fu giusta, sacrosanta, io stesso lo bersagliai senza sconti, adesso però è un’altra cosa, è una storia infame, di manomissione di provette. Hanno voluto fargli perdere credibilità dopo le sue denunce seguenti alla prima squalifica del 2012, l’odio verso di lui da allora è totale. Certamente poi hanno colpito lui anche per colpire me, non mi hanno mai perdonato di aver offuscato l’immagine di certi dirigenti dello sport».
-Come si contrasta il doping?
«Il problema non lo puoi risolvere, è utopistico pensarlo, tuttavia puoi ridurlo, devi concentrare le forze sulla riduzione del danno. La strada della cultura è quella giusta. In Federazione per anni non si sono assunti gli allenatori in base al loro talento, ma ci si è limitati a prendere atto di quelli che in qualsiasi modo, anche non ortodosso, ottenevano risultati. Mentre occorre formare allenatori fortemente preparati sulla qualità dell’allenamento, allenatori del genere tenderanno a rifiutare la strada del doping».
-Il sano narcisismo che porta a rifiutare le scorciatoie.
«Proprio così, ha detto bene. Chi accetta il doping è un mediocre, un insicuro, mentre l’allenatore bravo vive un sano senso della competitività che lo porta a non imbrogliare».
-Il metodo qualitativo dell’allenamento insomma è la strada maestra.
«Sì, esercizi mirati, lavoro di forza impostato sulla tecnica senza slegare i due elementi, qualità del movimento atletico, differenziazione dei carichi da un giorno all’altro, alternanza allenamento e riposo».
-È la lezione di Bragagnolo attualizzata?
«È la sua eredità. Lui coniugava un equilibrio perfetto tra teoria e pratica, padroneggiava la tecnica, aveva una grande capacità di osservazione e di comprensione del dinamismo dei movimenti. In una parola era un conoscitore della biomeccanica. Solo così puoi mettere, se lo ritieni opportuno, le mani sull’atleta, modificando una sua caratteristica o una sua tecnica».