Da Pesaro Angelo Spagnuolo – Area 5 Emilia Romagna Marche
Va in archivio un altro Giro d’Italia con i suoi verdetti, le maglie assegnate, vincitori e vinti, sorprese e conferme, emozioni, tante emozioni regalate. Un Giro che, dopo l’edizione 2020 corsa a ottobre a causa della pandemia che l’ha fatto slittare di qualche mese ma non neutralizzato, sì è riappropriato del suo naturale e storico arco temporale, maggio. Un mese che vede tradizionalmente l’Italia sportiva sotto i riflettori di tutto il mondo grazie anche ad altri eventi come gli Internazionali di tennis al Foro Italico e il concorso ippico di Piazza di Siena a Roma. Un Giro che perpetua il suo fascino, qualunque siano i suoi protagonisti d’annata, continuando ad attrarre in strada e incollare davanti alla TV milioni di tifosi e appassionati, nonostante da anni non riesca più a calamitare la presenza di tanti grandi campioni delle corse a tappe, che gli preferiscono le strade di Francia e talvolta anche quelle di Spagna.
La Corsa Rosa è forte e fiera della sua storia, ci fa conoscere tanti angoli, anche poco conosciuti, della nostra Italia, preserva i suoi riti, nonostante qualche discutibile deviazione per ragioni legate agli sponsor. Ogni anno ci divertiamo, prima del suo inizio, a studiare il percorso, a vedere quante stellette siano state assegnate dai giornali a una tappa per quantificarne la difficoltà, ci interroghiamo se quella certa salita possa essere più favorevole alle caratteristiche di quel o di quell’altro corridore, se quella determinata discesa possa divenire teatro di un attacco, se una tappa sia destinata a un arrivo in volata o a premiare una fuga da lontano. E poi arrivano i giorni di corsa, che volano via veloci, passano tutti di un fiato, con gli scenari che cambiano repentinamente, con la possibilità per un corridore di passare in un amen dalle stelle alle stalle, dalle lacrime di gioia a quelle di dolore e di sconforto. Così succede che Caleb Ewan, re indiscusso delle volate fino a quel momento, con la maglia ciclamino addosso abbandoni improvvisamente la corsa per un problema al ginocchio. Capita che Alessandro De Marchi, dopo aver passato un’intera vita in fuga a inseguire imprese impossibili, conquisti finalmente una meritatissima maglia rosa ma poi non riesca a terminare la competizione a causa di una brutta caduta appena un paio di giorni dopo quel primato.
Un giro 2021 molto ben disegnato, combattuto, nobilitato dalle scelte degli organizzatori che, viste le condizioni climatiche e le basse temperature, hanno evitato ai corridori l’inutile supplizio di transitare dalle parti di Fedaia e Pordoi, i quali hanno annullato il previsto passaggio della corsa sul Mottarone, per rispetto e omaggio alle vittime della strage della funivia, un’ennesima tragica e inaccettabile vicenda che non ci deve lasciare indifferenti ma indignare, far capire come il nostro Paese abbia un bisogno improcrastinabile di essere rifondato fin dalle sue fondamenta, di recuperare professionalità e valori che talvolta sembrano irrimediabilmente sacrificati all’altare del Dio denaro.
A vincere la competizione, a soli 24 anni, nonostante i problemi di schiena che l’hanno tormentato per un lungo periodo, Egan Bernal, campione colombiano che nel suo curriculum già vantava la conquista di un Tour de France. Ottimo scalatore, un prestigioso passato da mountain biker, ha regalato emozioni nelle prime due settimane di corsa, regalando spettacolo sulle strade bianche toscane e trionfando in maglia rosa a Cortina d’Ampezzo. Poi, nella terza e ultima settimana, quando la condizione si è appannata e le gambe hanno iniziato a girare meno efficacemente di prima, ha saputo con intelligenza e serenità gestire il vantaggio, senza prendere inutili rischi, finire fuori giri, strafare, supportato dalla sua straordinaria squadra, la Ineos Grenadiers. Nelle sue interviste mai una parola fuori posto, tanta modestia, ringraziamenti per i compagni, un rispetto sincero e non ipocrita per i suoi avversari. Ha confessato di aver avuto un solo grande idolo ciclistico, Marco Pantani, di cui conserva ancora un poster nella sua casa colombiana, dove peraltro non ha nemmeno un ritratto o una foto incorniciata di sé stesso o di una sua impresa. E a chi, per lo stile e gli scatti in salita, gli faceva notare la somiglianza con il Pirata, ha gentilmente risposto che in questo momento no, un confronto non è neppure minimamente ipotizzabile.
Due immagini, due istantanee ci aiuteranno a ricordare per molto tempo questo Giro, perché immortalano due gesti che rappresentano e spiegano l’essenza stessa del ciclismo, uno sport in cui grandi protagonisti sono la fatica condivisa e il rapporto unico e simbiotico tra gregario e campione.
Una ritrae Daniel Martinez che, nel momento di più aspra difficoltà di Bernal sulle rampe di Sega di Ala, non solo lo scorta e lo conduce come solo un angelo custode sa fare, ma lo incita, lo galvanizza. In quel gesto, in quel pugno chiuso, c’è la dichiarazione di fedeltà del gregario al suo capitano, l’invito a farsi trascinare per una volta da lui, l’incitamento a non mollare, a procedere insieme, a unire le forze, per non vanificare gli sforzi fatti fino a quel momento, per raggiungere la vetta e portare a termine l’impresa.
E’ invece una manifestazione di genuino ringraziamento, che vale più di mille parole, la pacca sulla spalla, o per meglio dire sulla schiena, che Damiano Caruso ha dato al suo compagno di squadra, Pello Bilbao, che per una volta, per un giorno, s’è fatto prezioso gregario e ha tirato per lui. L’inversione dei ruoli prestabiliti alla vigilia della corsa, con il gregario annunciato che diventa capitano inatteso, e il capitano che si sveste del ruolo interpretato tante volte per indossare i panni del gregario.
Eccezionale è stata la corsa di Damiano Caruso, giunto secondo in classifica generale. Un risultato reso possibile dal ritiro per caduta di Mikel Landa, punta di diamante numero uno della sua formazione, la Bahrain Victorious, che ha quel punto ha dovuto cambiare strategia, puntando tutto su di lui. Un piazzamento che vale una consacrazione per il ciclista siciliano, intelligente e generoso, sorridente e pronto alla battuta, che si è sempre fatto in quattro per aiutare i compagni di turno, e che, si badi bene, non è affatto un carneade, essendosi in passato già piazzato tra i primi dieci classificati di un Tour de France, ed essendo già stato uno dei cinque atleti scelti dal CT Davide Cassani per rappresentare l’Italia nella prova in linea alle Olimpiadi di Rio 2016. Dopo l’attacco in discesa e il vittorioso arrivo solitario all’Alpe di Motta, al traguardo, emozionato e felice, ha dichiarato ai microfoni di Eurosport: “negli ultimi 200 metri ho pensato a mille cose, a tutta la fatica fatta per arrivare a questo punto e a me stesso, che oggi ho realizzato un altro sogno. Non sono mai stato definito tale perché ho vinto corse minori, ma oggi posso dire di aver avuto la mia giornata da campione”. Una giornata di cui sarà stato molto fiero e orgoglioso Salvatore, il papà di Damiano, un poliziotto che a soli 19 anni prestò servizio come autista nella scorta di Giovanni Falcone.
Un risultato sportivo che tira su il morale a tutto il ciclismo italiano, che indubbiamente ha conosciuto periodi molto più esaltanti di quello attuale. E che tuttavia dimostra ancora una sua vitalità, con 7 successi su 21 tappe, le vittorie a cronometro e le tirate in testa al gruppo di Filippo Ganna, quella di Giacomo Nizzolo conquistata dopo tanti secondi posti, l’impresa di Lorenzo Fortunato sullo Zoncolan, la grinta di Vincenzo Nibali che, pur molto indietro in classifica e lontanissimo dalla sua miglior condizione, è voluto tenacemente giungere a Milano per onorare quel Giro che l’ha visto due volte trionfatore, nel 2013 e nel 2016.
Questo articolo di Angelo Spagnuolo, rielaborato per Panathlon Planet, è tratto dal blog di Overtime Festival, la Rassegna Nazionale del Racconto, dell’Etica e del Giornalismo Sportivo, che si svolge da dieci anni a Macerata nel mese di ottobre (https://overtimefestival.it/blog-overtime/)https://overtimefestival.it/blog-overtime/
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