Panathlon Planet ringrazia Francesca Betti per la concessione alla pubblicazione della sua Tesi di laurea sull’argomento della violenza nel mondo dello sport. Un problema più diffuso di ciò che si possa pensare.
Betti Francesca
Università degli Studi di Genova – Scuola di Scienze Sociali
Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza
Tesi di Laurea in Diritto Penale
” GLI ABUSI SESSUALI NELLO SPORT “
– Abstract –
La ricerca ha ad oggetto gli abusi sessuali nel mondo dello sport, un fenomeno ancora poco indagato. In Italia, in particolare non esistono studi organici sul tema, rinvenendosi solo alcuni, pochi e parziali, articoli di denuncia. Ho pertanto iniziato a raccogliere una serie di decisioni giurisprudenziali, sia sul fronte penale, sia sul fronte sportivo e ne ho rinvenute all’incirca una settantina per ordinamento. Il lavoro è quindi consistito nell’analisi sistematica delle sentenze raccolte, dalle quali sono emersi diversi profili interessanti, molti dei quali hanno trovato riscontro in alcuni studi internazionali.
In estrema sintesi, il contesto sportivo si presenta ad elevatissimo rischio quanto al verificarsi di episodi di abuso sessuale, contrariamente a quanto si potrebbe intuitivamente ritenere, forse per l’assenza di casi eclatanti a livello nazionale, forse perché lo sport viene ancora percepito come un ambiente sano per principio. La realtà però è un’altra ed è stata ostinatamente occultata attraverso una vera e propria politica del silenzio, trasversale all’intero mondo dello sport, nazionale ed internazionale.
La ricerca ha evidenziato alcune dinamiche relazionali peculiari dell’attività sportiva che costituiscono il terreno fertile per una vasta gamma di atteggiamenti inappropriati, i quali facilmente sfociano in vere e proprie condotte abusive.
I profili di rischio emersi sono numerosi: in primis viene in rilievo la particolare relazione di fiducia che si instaura fra allenatori e atleti, soprattutto se minori, e genitori, i quali raramente mettono in discussione l’autorità degli allenatori. Il forte squilibrio di potere, sovente accentuato mediante l’imposizione unilaterale delle metodologie di allenamento e l’uso di strutture premiali basate sulla paura e la dipendenza, è connotato da alcune peculiarità rispetto a quello che si instaura con altre figure autorevoli (come datori di lavoro e docenti) a causa della naturalezza dei contatti fisici, dello spirito di emulazione suscitato attraverso l’insegnamento speculare delle tecniche sportive, della capacità dell’istruttore di determinare il presente degli atleti e di porsi come “amico” e come guida al contempo, condividendo le forti emozioni connesse all’avvicendarsi delle vittorie e delle sconfitte.
Si segnalano, poi, la promiscuità in ambienti ristretti e diverse circostanze spazio-temporali nelle quali i minori risultano interamente affidati agli adulti di riferimento. Non a caso, i luoghi degli abusi sono sostanzialmente riconducibili a tre categorie: luoghi direttamente preposti all’esercizio dell’attività sportiva (palestre, spogliatoi, sale-peso, nei quali i contatti fisici sono la normalità e passano agevolmente inosservati); mezzi di trasporto e alloggi in occasione di trasferte e, nel caso in cui la fiducia raggiunga i suoi vertici, spazi privati nella disponibilità degli autori degli abusi.
A ciò si aggiungono confini inter-relazionali poco chiari, dovuti all’assenza di precise regole comportamentali. In particolare in relazione ai contatti telefonici, i quali costituiscono una tecnica di seduzione ricorrente in quanto consentono di coltivare un rapporto informale con l’atleta e di insinuarsi gradualmente in tutti gli aspetti della sua vita.
Si segnala, inoltre, una peculiare tolleranza di comportamenti discriminatori, violenti o sessualmente inappropriati, spesso considerati una componente ineluttabile dello sport e pertanto accettati dagli atleti. Ne consegue una maggiore difficoltà nel riconoscere gli abusi sessuali in quanto tali, sia da parte dei bambini, che potrebbero anche non possedere il vocabolario necessario ad esprimerli, sia da parte degli adolescenti, i quali, trovandosi ancora in una fase di sviluppo emotivo-sessuale potrebbero essere indotti a ritenere di intrattenere una relazione sentimentale con l’adulto. Infatti, gli abusi sessuali infantili in genere, ma nello sport in particolare, non sono stupri, bensì seduzioni che creano legami molto forti, rendendo la vittima dipendente. Non a caso, quella minoranza di atleti che rivela gli abusi subiti lo fa ad anni di distanza e in un momento in cui è meno focalizzata sull’attività agonistica, a seguito di una presa di coscienza a posteriori dell’accaduto.
Si denuncia, altresì, il fenomeno del silenzio, in un duplice aspetto, da un lato il clima di omertà nelle organizzazioni, finalizzato alla tutela della propria immagine e ad evitare scandali, dall’altro la rinuncia delle vittime alla denuncia per paura di ritorsioni, di non essere credute o anche solo dell’emarginazione da quel contesto sportivo che fornisce loro una socialità nella quale si sentono fortemente identificate, nonché, specialmente in contesti locali di modeste dimensioni, ma anche ad alti livelli, qualora non si percepisca l’esistenza di valide alternative, di vedere sfumare il proprio sogno agonistico.
Vengono infine in rilievo una visione generalmente negativa dell’attività di prevenzione, determinata soprattutto dal timore di generare un clima di sfiducia nelle organizzazioni sportive e di incentivare la formulazione di accuse infondate (ipotesi peraltro rarissime ed irragionevolmente temute); la tendenza a sottovalutare la gravità di determinati episodi e a procrastinare l’agire in quanto intorno a determinati allenatori si crea una sorta di harem competitivo in cui tutti, o almeno tanti, sanno, ma nessuno vuole rovinare la carriera di atleti e tecnici promettenti; la sostanziale assenza di controlli pre-assunzione, complice il fatto che il mondo dello sport si basa enormemente sul contributo di volontari (eppure gli strumenti ci sarebbero, basti ricordare l’art. 25-bis del Testo unico sul casellario giudiziale – DPR n.313/2002 – c.d. certificato antipedofilia), alla quale consegue la facilità degli autori degli abusi, condannati o indagati, di tornare o continuare ad esercitare l’attività sportiva, magari operando in regioni limitrofe o in altre Federazioni; la scarsa formazione e consapevolezza dei principali soggetti interessati (dirigenti, allenatori, atleti e genitori degli atleti) e l’assenza o scarsità/inefficacia delle misure per la gestione dei casi di abuso sessuale.
Le tipologie degli abusi emerse dall’analisi casistica possono essere ricondotte a due macro-insiemi: si segnalano, da un lato tutte quelle condotte che consistono nel compimento di una serie variegata di atti sessuali nei confronti di bambini, sfruttando circostanze ambientali favorevoli, e, dall’altro, quella fattispecie che ho ritenuto di definire “abuso mediante relazione sentimentale”, posta in essere ad opera degli allenatori nei confronti di atlete adolescenti o pre-adolescenti, che costituisce, per la sua intrinseca ambiguità, una delle principali criticità del fenomeno degli abusi sessuali nello sport. Essa infatti, pur comportando conseguenze psicologiche importanti, profondamente lesive dell’autostima della vittima, è di difficile comprensione e non viene immediatamente percepita come deviata, specie con l’aumentare dell’età della parte offesa. Si sottolinea tuttavia che anche un’atleta diciottenne non potrebbe non risentire dell’inconscio condizionamento nei confronti di una figura autorevole che, in quanto atleta, ha una naturale tendenza a voler compiacere.
La ricerca ha poi messo in luce le profonde differenze fra l’azione di contrasto al fenomeno posta in essere dall’ordinamento penale e quella posta in essere dall’ordinamento sportivo. Il primo adotta un approccio globale e multiforme, sebbene non specificatamente concepito in relazione agli abusi commessi nel contesto sportivo, dunque affinabile a livello giurisprudenziale; mentre è decisamente inadeguata la risposta delle istituzioni sportive, le quali si sono finora limitate a generiche dichiarazioni di principio, in un contesto nel quale non esiste una norma che reprima puntualmente le condotte sessualmente abusive – con la sola eccezione del recentissimo, “sperimentale” e parziale richiamo agli artt. 609-bis e 609-quater c.p. ad opera del Regolamento di Giustizia Sportiva della FASI[1], peraltro semplicistico e di discutibile utilità – necessariamente riconducibili nell’ambito della violazione del c.d. principio di lealtà di cui all’art. 2 del Codice di Comportamento Sportivo del CONI, sintomo della mancata presa in considerazione da parte del legislatore sportivo della circostanza che tra gli illeciti disciplinari “residuali” sarebbero potuti rientrare anche illeciti penali gravi, come testimoniato del resto dalla disciplina della prescrizione in ambito sportivo[2].
Sulle possibili linee di intervento, a livello penale si segnala l’opportunità, in sede di qualificazione del fatto, di valorizzare il rapporto fiduciario che si instaura fra allenatori e atleti al fine di responsabilizzare maggiormente i primi, escludendo il riconoscimento della diminuente del fatto di minore gravità in tutte le ipotesi in cui il fatto sia stato posto in essere con modalità tali da implicare un effettivo approfittamento del ruolo di istruttore e introducendo una specifica aggravante o comunque un aggravio di pena per le ipotesi di “abuso mediante relazione sentimentale”; nonché di rivolgere uno sguardo particolarmente attento, quanto a responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, punibile anche a titolo di dolo eventuale, alla dirigenza delle società/associazioni sportive nelle quali gli abusi si verificano, in risposta alla consolidata regola del silenzio. In relazione ai rapporti con la giustizia sportiva, sarebbe invece opportuno redigere un apposito protocollo generale di intesa fra l’Autorità giudiziaria e gli Organi di giustizia sportiva, che ne disciplini in maniera chiara le rispettive comunicazioni per far fronte ai casi nei quali gli autori degli abusi, già condannati penalmente, continuino ad operare nel mondo dello sport e alla sostanziale inerzia di CONI, Federazioni e società/associazioni sportive a costituirsi parte civile nei processi penali.
È la giustizia sportiva, tuttavia, il punto dolente e al contempo la chiave di volta per un deciso cambio di direzione. Sono molteplici i profili di riforma auspicati in questo ambito: primo, inevitabile, passo verso il cambiamento è la tipizzazione delle diverse fattispecie di “abuso sessuale”, delineando un complesso apparato normativo che, soprattutto, identifichi e reprima i c.d. comportamenti “a rischio” e dia rilievo a tutta una serie di condotte abusive, magari prodromiche rispetto a vicende più gravi o comunque tali da creare un clima favorevole all’abuso, ricollegando ad esse conseguenze sanzionatorie proporzionate, che però “risveglino le coscienze” dei destinatari e degli osservatori, garantendo al contempo il rispetto di quel principio penalistico c.d. di legalità formale che si sta lentamente facendo strada anche sul fronte sportivo[3]. In via preliminare occorrerebbe tuttavia procedere ad un approfondito studio del fenomeno, magari demandato ad un’apposita commissione istituita presso il CONI, la quale operi con metodo induttivo attraverso il confronto con i principali soggetti interessati e, in particolare, con le vittime, al fine di meglio comprendere le effettive dinamiche che hanno condotto all’abuso.
Occorrerebbe poi una serie di interventi di riforma della disciplina di diversi istituti del procedimento sportivo, quali: a) l’intervento del terzo nel procedimento disciplinare, il quale dovrebbe consentire alle vittime degli abusi o ai loro genitori di intervenire sino all’ultimo grado di giudizio, in ipotesi procedendo all’audizione del minore con modalità telematiche; b) i termini di prescrizione, attualmente brevissimi – termine della quarta stagione successiva al compimento dell’ultimo atto diretto a realizzare la violazione – dovrebbero essere allungati, magari sulla base del modello penalistico, procrastinando l’inizio della decorrenza del termine al compimento del diciottesimo anno di età del minore, salvo che l’azione disciplinare sia stata esercitata precedentemente, e sancendo l’imprescrittibilità degli illeciti puniti con la pena della radiazione; c) il c.d. patteggiamento sportivo e i provvedimenti di amnistia, grazia e indulto, escludendone l’applicabilità in relazione ai fatti di abuso sessuale; d) i termini processuali, ammettendone un allungamento; e) l’accesso alla giustizia federale, consentendo alle vittime di abusi sessuali l’accesso gratuito, anche a prescindere da situazioni reddituali deficitarie.
Fondamentale sarebbe poi l’opera di prevenzione, che dovrebbe passare attraverso la previsione di specifici “codici di condotta” rivolti ai soggetti che operano a stretto contatto con i minori, implicanti conseguenze sanzionatorie in caso di violazione e per la sola violazione, e di “codici procedurali” in grado di definire in maniera chiara e dettagliata l’iter da seguire nelle ipotesi di sospetto abuso, di denuncia e di abuso conclamato, nonché la predisposizione di appositi e periodici corsi di formazione, rivolti non solo ai dirigenti e agli allenatori, ma anche agli atleti, di tutte le età, e ai loro genitori.
Ancora, si segnala la necessità di obbligatori e accurati controlli pre-assunzione e della responsabilizzazione delle società/associazioni sportive, imponendo loro l’adozione di appositi modelli organizzativi di prevenzione e controllo, sulla scia dell’art.1, paragrafo 3 del Codice di Comportamento Sportivo del CONI, secondo il quale esse «rispondono dei comportamenti adottati in funzione dei loro interessi, da parte dei propri tesserati, dirigenti o soci e devono adottare codici organizzativi idonei alla prevenzione degli illeciti». Inoltre, le sanzioni pecuniarie comminate alle società per simili violazioni potrebbero essere destinate ad un apposito «Fondo» per il finanziamento di specifici programmi di prevenzione e assistenza agli atleti vittime di abusi, nonché al recupero degli autori degli abusi, in un’ottica di prevenzione speciale. Si potrebbero poi prevedere appositi meccanismi di finanziamento, che valorizzino l’impegno speso dalle Federazioni e/o dalle associazioni/società nel contrasto (effettivo, non “sulla carta”) al fenomeno degli abusi sessuali.
In conclusione, il fenomeno degli abusi sessuali nel mondo dello sport si presenta poliedrico, ricco di “zone grigie” e difficile da gestire, pertanto richiede un’azione di contrasto sinergica, che agisca su più fronti in maniera coordinata. A livello sportivo, l’auspicio è quello della redazione di un corpus normativo autonomo e della creazione di un organo di riferimento in materia, magari una “Procura Nazionale Anti Abusi Sessuali”, sul modello della Procura Nazionale Antidoping, che si faccia promotrice di una profonda riforma culturale, tenendo a mente che «le organizzazioni sportive, invece di essere premiate per le vittorie, dovrebbero essere premiate solo dopo aver dimostrato che quelle vittorie sono state conquistate in un ambiente sano e sicuro»[4].
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