“I PERSONAGGI DELL’URBE”, Interviste (Im)possibili di Lorenzo D’Ilario
Il Distretto Italia del Panathlon International ha incontrato Marta Pagnini, pluricampionessa di ginnastica ritmica. Atleta olimpica e capitana della Nazionale italiana fino al 2016, nel corso della sua strepitosa carriera sportiva ha vinto più di 60 medaglie in competizioni internazionali, tra cui: Giochi Olimpici (bronzo Londra 2012), Campionati del Mondo (2 ori, 6 argenti), Campionati Europei (1 argento, 2 bronzi), World Cup (17 ori, 13 argenti, 14 bronzi). Nel 2011 la Giunta Nazionale del CONI le ha assegnato la benemerenza del Collare d’Oro al Merito Sportivo, mentre nel 2014 ha ricevuto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana. Inoltre ha conseguito la Laurea in Scienze Linguistiche per le Relazioni Internazionali presso l’Università del Sacro Cuore di Milano. Nonostante il ritiro dalle competizioni la sua carriera nel mondo dello sport, come ci racconta, continua a gonfie vele con gare e sfide sempre nuove.
Tranne qualche rara eccezione entro i 25 anni, proprio come è successo a te, le ginnaste appendono le scarpette al chiodo. Con una vita ancora tutta davanti hai preso una decisione coraggiosa come quella di lasciare il posto fisso all’Aeronautica Militare ma non hai mai abbandonato il mondo dello sport. Come cambia l’approccio allo sport quando non hai più medaglie da conquistare?
- Rispetto a tante altre mie compagne ho vissuto molto serenamente questo passaggio. Anzi, ero addirittura un po’ insofferente negli ultimi anni di carriera perché non vedevo l’ora di incominciare una nuova vita. Ero molto curiosa e vogliosa di misurarmi in altri campi che non fossero la ginnastica ritmica. Ovviamente, anche oggi che non sono più in attività, l’indole agonistica non mi ha mai abbandonato. In tutto quello che faccio mi accorgo di utilizzare proprio la stessa mentalità, tenacia, voglia di risultato e persino lo stesso modo di reagire alle sconfitte del mio passato da ginnasta. Il lato “combattivo” che lo sport mi ha insegnato ormai fa parte di me e mi aiuta enormemente nel mondo del lavoro.
Alle Olimpiadi di Rio la medaglia di bronzo è sfumata per soli due decimi a vantaggio della Bulgaria. Purtroppo la ginnastica ritmica è uno sport dove il giudizio soggettivo la fa da padrone ed a volte è davvero difficile da accettare. Una volta terminata la tua carriera da atleta, nel 2017 sei diventata giudice internazionale. Cosa si prova a stare dall’altra parte della pedana?
- Negli ultimi tre anni il ruolo di giudice mi ha permesso di sentirmi ancora vicina alla pedana e per questo mi è piaciuto molto. Ho sempre cercato di giudicare nella maniera più oggettiva e trasparente possibile perché conosco benissimo le sensazioni e le paure di un’atleta. Questo ruolo non è affatto semplice: non solo perché si tratta di uno sport a giudizio soggettivo ma anche perché le regole sono tantissime e dai contorni non sempre ben definiti. Sono convinta che il rinnovo della giuria attraverso un ricambio generazionale sia la strada giusta per valorizzare la meritocrazia dell’atleta ed accrescere la visibilità della ginnastica ritmica: il giorno in cui diventerà più oggettiva e comprensibile a livello di giudizio anche per il pubblico “profano” sarà sicuramente più facile appassionarsi a questa disciplina sportiva.
Hai praticato danza classica per due anni ed equitazione. Hai iniziato a fare ginnastica artistica ma alla fine sei diventata una pluricampionessa di ginnastica ritmica. La tua straordinaria carriera sportiva è la dimostrazione che campioni non si nasce ma si diventa. Quali sono le persone che ti hanno messo nelle migliori condizioni di coltivare il tuo talento?
- Le persone che più mi hanno aiutato sono sicuramente i miei genitori, che hanno sempre creduto nel mio percorso e hanno saputo darmi i consigli giusti per andare avanti, soprattutto nei periodi di crisi in cui volevo mollare tutto. Oltre a loro, non posso non citare i miei nonni, che mi hanno cresciuto e non mi hanno mai fatto mancare la loro vicinanza. In particolare, nonna Maria è stata una grandissima mentore fino alla fine della mia carriera. Quanto agli allenatori, ne ho incontrati tanti: alcuni mi hanno aiutato, altri forse più ostacolato, ma tutti hanno contribuito alla mia crescita tecnica o mentale. Qualcuno, infatti, con i suoi metodi ha minato la mia autostima con l’inevitabile conseguenza di rallentare il mio percorso di crescita a livello tecnico. Ma questo non ha fatto altro che rafforzarmi a livello caratteriale.
Durante l’emergenza Coronavirus gli italiani si sono fatti forza con il motto “Andrà tutto bene”. Una frase colma di speranza che ti avrà ricordato senz’altro l’esortazione di nonna Maria prima di ogni gara. “Fai tutto bene”, non a caso, è il titolo del libro che hai scritto nel 2018 in collaborazione con la giornalista Ilaria Brugnotti (Baldini&Castoldi Editore). Ci spiegheresti il significato e come le parole di tua nonna ti abbiano aiutato a diventare una delle “Farfalle” più vincenti della ginnastica ritmica italiana?
- Mia nonna mi ha sempre fatto sentire la ginnasta più brava del mondo. Lo diceva con una tale convinzione che alla fine ci credevo davvero: è stata capace di infondermi tutta l’autostima, la caparbietà e la convinzione che all’inizio della mia carriera mi mancavano! Da bambina, infatti, mi sentivo molto forte nelle attività intellettuali ma non in quelle fisiche e pratiche. Il suo sostegno è stato fondamentale per aiutarmi a vincere questa paura e questo senso di inadeguatezza che avevo maturato semplicemente perché avevo più timore di eseguire certi esercizi oppure ero più fragile a livello fisico di tante mie compagne. Le sue parole non erano un augurio di buona sorte ma un’incitazione. Anzi, un vero e proprio diktat, come se non avessi possibilità di fare diversamente. “Fai tutto bene” per lei significava “devi fare tutto bene: è quello che sai fare e, quindi, lo devi fare”. Anche se a prima vista potrebbe farti sentire sotto pressione, questa frase mi ha sempre trasmesso una carica positiva straordinaria e messo nelle condizioni di dare il meglio di me.
Negli ultimi anni sei andata spesso nelle scuole e, da ultimo, hai partecipato attivamente all’edizione 2020 dell’Educamp CONI. Qual è l’importanza di questi incontri ed iniziative che permettono ai giovani di interagire con i grandi interpreti dello sport italiano?
- Sono contentissima di aver avuto la possibilità di partecipare all’Educamp, al Trofeo CONI e a tanti altri eventi nelle scuole che mi permettono di stare vicino ai ragazzi. Al di là delle nozioni tecniche sulla ginnastica ritmica e dei racconti sulla mia carriera, ciò che mi piace trasmettere ai ragazzi è la motivazione che si nasconde dietro ad ogni risultato sportivo. Ai giovani di oggi, spesso, mancano passione e voglia di fare. Non perché si tratti di una cattiva generazione: la causa risiede nella difficoltà di convivere con i mezzi che la società attuale mette a loro disposizione. La possibilità di ottenere tutto con troppa facilità rischia di allontanarli dai valori, dagli obiettivi e dalle gioie che può regalare l’attività motoria anziché il mondo virtuale. Perciò, cerco di insegnare ai ragazzi che un campione non è un predestinato o una persona particolarmente fortunata. Per diventare un campione è necessario coltivare passioni e ambizioni sin da bambini. Così come ci sono riuscita io, anche loro possono e devono farcela. Basta soltanto credere nei propri sogni e avere la forza di lottare fino a quando non si riesce a raggiungerli!
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