“I PERSONAGGI DELL’URBE”, Interviste (Im)possibili di Lorenzo D’Ilario
In occasione della presentazione dell’Educamp CONI all’interno del Centro di Preparazione Olimpica dell’Acqua Acetosa di Roma, Raffaella Masciadri, leggenda del basket italiano, si è concessa ai microfoni del Distretto Italia del Panathlon International. La bacheca della storica capitana della Nazionale di basket femminile è stracolma di titoli: pluricampionessa d’Italia con 15 Scudetti, 10 Coppe Italia e 13 Supercoppe tra Pool Comense e Famila Schio, una EuroCup, tre medaglie con la maglia azzurra e due campionati in WNBA tra le fila delle Los Angeles Sparks. Oggi, nonostante il ritiro dalle competizioni, la sua carriera nel mondo dello sport continua lontano dal parquet ma al tempo stesso sempre vicino alle esigenze degli atleti e alla crescita del basket nazionale ed internazionale.
Il 10 aprile 2017 sei stata la prima eletta in quota atleti al Consiglio Nazionale del CONI ed il successivo 1 giugno sei diventata presidente della Commissione Atleti. Potresti spiegare di cosa si tratta?
Ricordo il giorno dell’elezione come se fosse ieri: ero emozionata non tanto per il discorso di candidatura ma perché ero circondata da atleti olimpici per i quali avevo sempre tifato dalla tv, come ad esempio Roberto Cammarelle, Giulia Quintavalle, Margherita Granbassi, Mara Santangelo, Silvia Salis, Carlo Molfetta, Kelum Perera, che insieme ad altri campioni costituiscono il direttivo della commissione. Al nostro fianco, in qualità di segretaria, vi è Raffaella Chiussi, il nostro autentico braccio operativo. La nostra mission è quella di contribuire alla diffusione dell’ideale olimpico e di formulare proposte, suggerimenti e pareri agli organi del CONI per adottare strategie e programmi, con particolare riferimento alle questioni relative agli atleti.
A distanza di tre anni dall’elezione quali sono i principali risultati raggiunti durante la tua presidenza?
Partendo dalle offerte formative universitarie, non posso non citare la collaborazione con Unisport Italia, ovvero un progetto di dual career che coinvolge 43 università italiane. Passando ai risultati istituzionali e aziendali, spiccano il bando AEES (“Atleta eccellente, eccellente studente”) e il MYllennium Award della Fondazione Barletta. Il primo progetto premia gli atleti che si sono laureati nell’annata di riferimento ed intende valorizzare le esperienze di successo in ambito sportivo e formativo, di cui il diploma di laurea ne costituisce il simbolo riassuntivo. Il secondo, invece, è un premio rivolto ai “millennial”, cioè agli atleti nati tra gli anni Ottanta e i primi anni Duemila. Il fiore all’occhiello di questa iniziativa è la sezione My Sport, che esorta gli atleti under 30 ad uscire dalla propria comfort zone e a misurarsi in nuovi campi del sapere, presentando il proprio progetto in quattro diversi ambiti: imprenditoria, saggistica, formazione, comunicazione. Infine, sono orgogliosa di un successo ministeriale che ci ha visto protagonisti: il Fondo Maternità.
Il Panathlon è da sempre sensibile all’importanza e al valore della presenza femminile nel movimento agonistico del nostro Paese e, in particolar modo, all’abbattimento delle barriere culturali che ne ostacolano lo sviluppo. Potresti parlarci nel dettaglio del Fondo Maternità?
Nel 2018, insieme alle associazioni di categoria, abbiamo partecipato al tavolo tecnico organizzato dall’Ufficio Sport della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la realizzazione permanente di un fondo che desse sostegno alle donne atlete in questo momento delicato ma sicuramente bellissimo della loro vita. Diventare mamma è un diritto naturale che spetta a tutte le donne, lavoratrici e sportive. Non potevamo accettare che le atlete vivessero con ansia l’eventuale scelta di diventare mamma a causa della previsione nei loro contratti della clausola in base alla quale in caso di gravidanza gli stessi venissero automaticamente risolti. Oggi, grazie al Fondo Maternità, ogni atleta di alto livello in maternità può accedere dietro domanda a un contributo di 1000 euro al mese per 10 mesi, avendo così assicurata la tranquillità economica necessaria per affrontare con serenità questo periodo di inattività agonistica.
Quali sono, invece, i progetti aperti che intendi realizzare nell’ultimo anno di presidenza o lasciare in eredità?
Tra i diversi progetti aperti in particolar modo ce ne sono due che vorrei realizzare al più presto. Il primo concerne la creazione di una piattaforma online (anche a livello internazionale) su cui reperire informazioni in merito a tutte le iniziative che vengono promosse dalla Commissione Atleti del CONI e dalle associazioni di categoria a favore degli atleti in maniera tale che questi ultimi possano direttamente fruirne. Il secondo, invece, riguarda la pallacanestro femminile italiana. Mi piacerebbe raggiungere una sorta di semi-professionismo, che possa anche essere considerato un progetto pilota a livello nazionale per altri sport. La pandemia ci ha portato a riflettere sulla necessità di avere maggiori garanzie sia a livello economico che previdenziale. Sarebbe quindi opportuno creare una sorta di contratto collettivo, che permetta agli atleti e alle società stesse di guardare al futuro con maggiore serenità.
Lo scorso ottobre il tuo brillante percorso nelle istituzioni sportive è stato impreziosito dalla nomina come componente nella Commissione Giocatori della FIBA. Qual è il contributo che giocatori e giocatrici possono apportare all’interno del prestigioso organismo internazionale?
La FIBA Players’ Commission è l’associazione mondiale dei giocatori e delle giocatrici di pallacanestro. Il presidente attuale è Dirk Nowitzki, storico campione NBA, mentre la carica di vice-presidente è ricoperta da una donna: Jennifer Screen, ex cestista del Parma Basket. Ci prendiamo cura dei giocatori e delle giocatrici in attività e promuoviamo tante iniziative per supportarli. Ad esempio, durante le competizioni internazionali, come i Mondiali e gli Europei (sia senior che giovanili), ci preoccupiamo che la loro permanenza sia curata nei minimi dettagli, anche tramite la predisposizione di una Players’ Lounge, e che sia funzionale al loro successivo apporto in campo. Un altro aspetto che abbiamo a cuore è la loro crescita personale attraverso seminari o webinar che teniamo noi stessi. Inoltre, raccontiamo loro le nostre esperienze, dentro e fuori dal campo, in maniera tale che possano prenderci da esempio nella loro carriera sportiva, formativa ed educativa.
Nell’ultima stagione, fino alla chiusura anticipata a causa dell’emergenza Coronavirus, hai svolto il ruolo di Team Manager per il Famila Basket Schio e di Team Director per la Nazionale italiana femminile. Quali sensazioni hai provato indossando un nuovo abito al posto della tradizionale canotta?
Ho vissuto molto serenamente il passaggio da giocatrice a dirigente. Già all’inizio della mia ultima stagione avevo considerato e ponderato la scelta di appendere la scarpe al chiodo e, con il passare dei giorni, si è concretizzata senza alcun rimpianto perché sapevo di aver dato tutto ciò che potevo alla pallacanestro e che fosse arrivato il momento di lasciar spazio alle giovani per dedicarmi ad altro. In alcuni momenti della vita bisogna avere il coraggio di dire basta e mettersi da parte. Non essere più in campo ma dietro una scrivania e vivere le emozioni delle partite dalla panchina ha un sapore davvero nuovo per me. Una cosa che sto riscoprendo è il valore del tempo. In realtà sono sempre molto impegnata con il lavoro ma sto imparando a sfruttare meglio il tempo da dedicare alle persone che amo, a me stessa, a fare attività diverse e nuove che uno sportivo professionista per vari motivi non può portare avanti. Avere la possibilità di reinventarsi a quasi 40 anni non è affatto scontato ed è un grande dono.
La tua carriera manageriale e istituzionale nel mondo dello sport è anche e soprattutto merito della tua istruzione. Come hai fatto a conciliare gli studi con un’attività agonistica di alto livello?
Sin da giovane ero conscia del fatto che la pallacanestro giocata potesse un giorno avere una fine e che quindi fosse necessario costruire parallelamente una seconda carriera. Non è semplice gestire queste due strade perché diventa prioritario imparare a conciliare allenamenti intensivi e partite, nazionali ed internazionali, con l’istruzione. Però è fondamentale per farsi trovare pronti alla fine dell’attività agonistica. È per questo che non ho mai smesso di studiare: ho preso il diploma in lingue, la laurea in scienze giuridiche e lo scorso ottobre ho ottenuto il Master in “Leadership and Management” presso la Northumbria University di Newcastle (UK) grazie al FIBA Time-Out Project. Quest’ultimo è un progetto nato tre anni fa dalla proposta di due ex cestiste che oggi lavorano in ambito manageriale all’interno della FIBA con lo scopo di aiutare gli atleti in attività a costruire il loro futuro professionale nel mondo dello sport, mettendo a loro disposizione tre diversi ambiti di studio: quello prettamente sportivo-manageriale, quello da agente degli atleti e quello universitario. Un bel mix formativo che ha permesso a me e ad altri giocatori e giocatrici di rimanere nell’ambiente sportivo sotto un’altra veste.
Nella tua avventura tra le fila delle Los Angeles Sparks, la squadra “sorella” dei Lakers, sei arrivata ad un soffio dalla finale per il titolo WNBA. Quali sono le maggiori differenze tra il basket americano e quello europeo?
Dentro al campo ho subito notato una maggiore atleticità, anche alla luce del fatto che le giocatrici afro-americane di natura sono più potenti fisicamente. Però, con il passare degli anni, questo gap si è ridotto. Anche la fase di potenziamento muscolare, rispetto a quando nel 2005 sono andata a giocare negli Stati Uniti per la prima volta, oggi è meno accentuata. A favore del basket europeo devo riconoscere che da noi si svolge un maggior lavoro sulla tattica di squadra e le giocatrici sono più preparate a gestire situazioni in continuo cambiamento, mentre nella WNBA ho notato una minor elasticità e capacità di adattamento.
E fuori dal campo?
L’aspetto che salta maggiormente all’occhio è sicuramente l’attenzione che i media ripongono sulle giocatrici e sul campionato. Ogni testata giornalistica e televisiva segue minuziosamente le partite e le vicende delle singole giocatrici. A differenza di quanto accade in Italia, dove spesso le notizie sul basket o sugli sport femminili finiscono in prima pagina soltanto per questioni che poco c’entrano con lo sport giocato. Inoltre, negli Stati Uniti, la cultura sportiva è completamente diversa. Si pratica sport sin da bambini e le strutture sportive presenti nelle scuole e nei college sono paragonabili a quelle che in Italia possiamo vantare soltanto nel mondo del calcio. L’educazione fisica è una materia parimenti importante alla storia, alla geografia e all’inglese. Ma, soprattutto, coloro che praticano attività sportiva agonistica sono considerati modelli da seguire e da rispettare proprio per la doppia carriera che svolgono: a scuola e nello sport.
Nella tua straordinaria carriera sei stata anche una campionessa nella solidarietà. Ad esempio, sei una storica testimonial della Fondazione Città della Speranza. Potresti parlarci del tuo impegno per il sociale?
Ho sempre creduto fortemente nel ruolo dello sport come collante della nostra vita culturale, sociale, familiare ed educativa. Lo sport rappresenta un importante momento di formazione sia da un punto di vista motorio che psicologico-emozionale, capace di contribuire attivamente alla crescita della personalità dei soggetti coinvolti. Per questo motivo, ho sempre appoggiato tutte le iniziative che promuovessero questi valori. Un ente a cui sono tanto legata è, appunto, “La Città della Speranza”, una fondazione nata nel dicembre 1994 in ricordo di Massimo, un bambino scomparso a causa della leucemia. Quando sono arrivata a giocare a Schio mi sono subito affezionata a questa realtà perché mi attirava l’idea che anche noi sportivi potessimo portare speranza e strappare un sorriso ai bambini colpiti dalla leucemia e da altre malattie. Una delle tante iniziative di cui mi sono fatta promotrice per portare felicità a questi bambini è stata quella del Teddy Bear Toss.
Già, dagli Stati Uniti hai importato in Italia il Teddy Bear Toss. In cosa consiste esattamente?
L’iniziativa consiste nel recarsi ad un evento sportivo con un pupazzo di peluche e lanciarlo in campo in un momento prestabilito, come il primo gol o il primo canestro della partita. Solitamente i peluche vengono poi raccolti dalla squadra di casa e distribuiti dai giocatori stessi o da rappresentanti della società nei reparti pediatrici degli ospedali della zona. Questo è esattamente ciò che ho organizzato nel 2016 a Schio in occasione dell’ultima partita prima della sosta natalizia. Insieme alla società Famila Basket ho invitato tutti i nostri tifosi (che ringrazio ancora di cuore per aver aderito all’iniziativa in maniera incredibile, consentendoci di raccogliere oltre 1000 peluche) a portare un peluche e a lanciarlo in campo al primo canestro della partita. Il giorno dopo, con alcune rappresentanti della squadra, siamo andate a consegnare personalmente gli orsacchiotti ai bambini in ospedale: ho ancora i brividi se ripenso a quanto sono stati felici nel riceverli!
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