–di Massimo Rosa–
E’ doveroso dire che una partita è vista e valutata da tanti occhi, ognuno con la propria verità. Vorrei fare un distinguo: ad un match non c’è un pubblico solo, bensì ve ne sono diversi. Proviamo ad individuarli.
C’è quello pagante che va allo stadio ed è diviso in due fazioni “l’un contro l’altro armata” e sta comodamente seduto vedendo la partita da più angolazioni, sempre comunque distanti da dove avvengono “i fatti delittuosi”. La sua valutazione sull’accaduto è sempre legata alla squadra di appartenenza, mai veritiera e dunque sempre di parte.
C’è poi chi sta comodamente a casa lontano magari migliaia di chilometri (ma questo è irrilevante), seduto in poltrona con bicchieri di grappa o di whisky, oppure sorseggia una buona tazza di caffè bollente. La partita questo tipo di spettatore non la vede con i propri occhi ma con quelli della televisione, che a sua volta “come occhi” utilizza una ventina di telecamere. Dunque una partita distorta e non reale.
Alla televisione ci sono poi i commenti dei telecronisti, non sempre corretti perché legati al network di appartenenza, a sua volta interessato a questo o a quel club per motivi di audience. Faccio alcuni esempi: al di là della solita Juventus, del solito Milan o dell’Inter, vi sono società come Napoli, un tempo paradossalmente come Reggina e Palermo, prima che scomparissero dai radar, che hanno avevano un’audience mondiale fatta da qualche milione di fans appiccicati al televisore a vedere la partita via satellite: questi possono trovarsi a New York come nella Terra del Fuoco (estremo sud dell’Argentina).
Ai cronisti radiotelevisivi si aggiungano quelli delle testate giornalistiche, che a loro volta interpretano la partita a seconda della città di provenienza.
Scendendo in campo abbiamo un altro tipo di pubblico, cioè i due guardalinee (oggi assistenti), che a seconda di dove si trovano, vicino o lontano, in linea o di traverso, in tempo giusto o in ritardo, perché l’azione è stata, come spesso ormai accade, talmente rapida che sono rimasti indietro, che vedono quello che possono.
Poi da qualche anno ha fatto capolino la VAR, nata per risolvere l’intricata panacea delle dietrologie delle “malefatte” arbitrali. Ma così non è stato.
E dulcis in fundo c’è l’arbitro, che mi ostino a dire stava meglio quando gli gridavano: “Arbitro cornuto”, spesso stritolato com’è dalla tensione accumulata durante la settimana grazie alla impietosa e falsa moviola, vista e rivista con doviziosi commenti partigiani, che compie degli scempi in nome della giustizia. Giustizia?
Ma quale giustizia per favore, la moviola esacerba i tifosi. Dicevamo dunque dell’arbitro, che in tutto questo movimento di occhi ha il compito più ingrato. L’esempio da me fatto, in una lezione ormai lontana di Tribuna Fair Play, sul tempo che ha per prendere una decisione, tempo corrispondente ad uno schioccar delle dita (un solo attimo): deve vedere il fallo, valutarlo, fischiarlo. E che Dio gliela mandi buona, perché se ha preso fischi per fiaschi, sono cavoli amari. Tra l’altro c’è anche l’interpretazione del regolamento, che fa contenti e scontenti.
L’arbitro, poveraccio, è soventemente indotto, suo malgrado, in errore dallo scorretto comportamento dei giocatori, molti dei quali veri e propri cascatori e mentitori di professione. Spesso c’è anche l’errore di profondità, ovvero dell’immagine appiattita, che causa spesso errori grossolani di valutazione. Se dovessi continuare potrei andare oltre il tempo regolamentare, e sinceramente mi sembra sufficiente quanto detto.
“ Il calcio deve rimanere così com’è con i suoi errori umani, guai alla tecnologia: sarebbe la fine dello sport più bello del mondo”, aveva Esclamato il giocatore di un Hellas di qualche anno fa. Almeno per noi italiani è così.
Differentemente di cosa discuteremmo durante la settimana se la moviola evidenziasse tutta la verità, solo la verità?
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