“Ho combattuto, mi sono sempre rialzato. Ma questa volta non mi rialzo più. Sono estraneo a tutto”
di Tonino Raffa
Un tuffo nel mare dei ricordi nel sapere che domani, 20 maggio, su Facebook e You Tube, si parlerà del “Caso Pantani” con le testimonianze autorevoli di chi lo ha conosciuto bene come Beppe Conti, Stefano Bertolotti, Davide Cassani, Francesco Pannofino e Domenico Ciolfi.
Riavvolgo il nastro della memoria e torno alla fine degli anni ottanta, quando in Calabria, da inviato del TG 3, seguivo la “Sei giorni del sole” , gara internazionale per dilettanti organizzata dallo Sporting Club Mileto. Una competizione coi fiocchi, in grado di lanciare tanti assi allora in verdissima età come Andrea Peron, il russo Berzin, l’argentino Daniel Castro, Fabio Carsartelli, Massimo Podenzana, Gianni Bugno, Michele Coppolillo. Nell’edizione dell’89 alla punzonatura si presentò anche l’uomo della leggenda: Marco Pantani. Non aveva ancora il look con la bandana e i capelli rasati. Vinse due tappe e, nelle interviste sul palco, dopo la premiazione, mi bastò scambiare poche battute per capire che avevo di fronte un ragazzo umile ma allo stesso tempo tenace, determinato, essenziale nelle risposte, mai banale, lucido nei concetti. Il “pirata” tornò a Mileto, qualche anno dopo, nel 1996, per inaugurare, da campione ormai affermato, un’altra edizione della corsa. Particolare importante: tornò con le stampelle, reduce dal brutto incidente in gara, alla Milano-Torino, alcuni mesi prima. Aveva dato la parola e per lui era giusto tenere fede all’impegno preso.
Il resto è storia, la storia di un eroe tragico, amato e sfortunato, acclamato e osannato come atleta, forse fragile come uomo. Ma direi che questa fragilità era diventata una costante solo dopo i numerosi incidenti in corsa e le invidie piovutegli addosso in seguito alle tante strepitose vittorie come quelle al Giro d’Italia e al Tour del 1998. Già quell’anno alla domanda di un collega che gli chiedeva come mai andava così forte in salita, lui aveva risposto in maniera secca: “per abbreviare la mia agonia”. Forse aveva sospettato che qualcosa, nell’ambiente attorno a lui, non girava più per il verso giusto. Battuta profetica, perché l’anno dopo arrivò la svolta traumatica di Madonna di Campiglio con il blitz del 5 giugno in albergo, l’esame clinico che rivelò un alto tasso di ematocrito, la squalifica, l’estromissione dal Giro (quando era in testa alla classifica generale, con sei minuti di vantaggio sul secondo a due tappe dalla conclusione) i guai giudiziari, le accuse di doping, l’emarginazione progressiva, il buio della droga. Altra confessione dopo la vicenda traumatica del ‘99: “ho combattuto, mi sono sempre rialzato. Ma questa volta non mi rialzo più. Sono estraneo a tutto, ma sono anche consapevole che l’ingiustizia mi schiaccerà. Vorrei solo un po’ di rispetto. Penso ai miei tifosi, mi spiace per loro e per il ciclismo”.
Di rispetto, invece, ne ebbe poco. Il clamore mediatico lo portò nel tunnel della depressione, fino alla morte nella camera di un hotel di Rimini, il quattrodici febbraio del 2004. Un decesso attribuito a una dose letale, ma sul quale pesano ancora parecchi interrogativi che tante inchieste, apparse lacunose, non sono riuscite a sciogliere, vanificando l’ansia di giustizia e di verità dei suoi genitori. I quali hanno sempre sospettato che dietro la morte del loro campione, ci sia stato un complotto ben orchestrato.
Era il quattordici di febbraio, giorno di San Valentino. In quella data finì per molti l’amore per il ciclismo ed i suoi eroi.
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