-di Lorenzo Fabiano Della Valdonega-
Stelle, fango e cenere. I tre elementi che caratterizzano la storia di un eroe dannato come Marco Pantani. Il più umano dei campioni, nelle sue imprese e nelle sue debolezze, nella sua ascesa e nella sua brusca discesa, metafora ciclistica di una vita da teatro classico. Nessuno meglio di Euripide avrebbe potuto raccontarlo un uomo così.
Aveva tutto: fama, gloria, ricchezza, ma non la serenità dell’equilibrio, tanto da finire inghiottito dal vortice della sua stessa fragilità nella burrascosa caduta giù nel precipizio. L’umanesimo di Pantani è dentro ognuno di noi con le sue contraddizioni, i suoi conflitti, i suoi dubbi e i suoi tormenti ai quali alla fine egli si arrese.
La sua è la storia di un campione triste e infelice, al quale il mondo non è mai parso lieve anche quando girava dalla sua parte. Lui ci mise del suo, certo, ma altri molto di più. Ci ha fatto sognare, ci ha regalato quelle stesse emozioni che solo immaginavamo grazie ai racconti dei nostri padri e dei nostri nonni quando ci narravano le gesta di Fausto Coppi, il Campionissimo, l’uomo solo al comando. Ebbene, anche Pantani in bicicletta fu uomo solo al comando, salvo ritrovarsi nelle ultime fasi della sua vita tragicamente solo. Ormai il comando non era che un ricordo e un peso insostenibile. Amarissimo destino.
La sua tregenda umana mi tocca da vicino; ero sul Galibier sotto il diluvio al Tour del ’98 quando sui pedali, uno scatto dopo l’altro, scalò la gloria; un anno, e ricordo ancora oggi quella mattina sul Mortirolo quando arrivò la notizia della sua esclusione da un Giro che aveva ormai stravinto. Dopo una notte di feste e bagordi all’accampamento indiano della tribù del pedale, piombò il silenzio, assordante quanto quello cui ci ha abituati la clausura nei giorni del mondo avvelenato dal Covid-19. Era un ciclismo sporco, d’accordo, ma come sempre succede nel mondo degli avvoltoi, finì per pagare uno per tutti, il più forte, ma anche il più debole. Una brutta storia.
La vita di Pantani non si spense il 14 febbraio del 2004, solo come un cane in una nuda stanza di un residence di Rimini, preda delirante dei suoi tormenti e vittima di un mondo d’artifizi al quale si era disperatamente e inutilmente aggrappato. A spegnersi, la sua vita cominciò proprio quella maledetta mattina del 5 giugno del 1999 in un albergo di Madonna di Campiglio.
Si è detto e scritto tutto, magari anche troppo, e non è certo questa la sede per rinvangare vicende che hanno più a che fare con la cronaca nera piuttosto che con quella sportiva. Di fango e cenere la storia di Marco Pantani è già stata cosparsa abbastanza. Basta così. Teniamoci allora strette le stelle, che lucevan e per sempre luceran.
Ciao Pirata, tu non lo sapevi, ma quelli come te non muoiono mai. Almeno questo, ti sia concesso.
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