Il Prof. Giuseppe Fabiano è docente di Metodologia Clinica 2 – Facoltà di Psicologia università G.Marconi di Roma
di Francesca Tibaldi
Nell’attesa che si formalizzino giovedì 23 aprile le decisioni di alto livello tra la UEFA e le 55 federazioni europee gioco calcio, riguardanti i calendari delle competizioni per squadre nazionali e club già individuate da due gruppi di lavoro costituiti a marzo e con la raccomandazione di completare le competizioni domestiche di alto livello e le coppe, è interessante cercare di capire come stanno vivendo, da un punto di vista psicologico, gli attori protagonisti di tale scenario. Quali potrebbero essere i risvolti psicologici dei calciatori professionisti al tempo del Covid 19, e in particolare in questo frangente così delicato? Con le risposte del Prof. Giuseppe Fabiano, docente di Metodologia Clinica 2 nella facoltà di Psicologia dell’Università Guglielmo Marconi di Roma, cerchiamo di fare chiarezza su alcuni aspetti.
- Nel caso la FIGC decidesse la ripresa di allenamenti e gare per la serie maggiore, quale potrebbe essere l’approccio psicologico di un calciatore chiamato a giocare in questa situazione di emergenza del virus covid 19?
Credo possa essere utile evidenziare alcuni elementi che caratterizzano il gioco del calcio sia rispetto alla “vita comune”, sia rispetto ad altri sport e, al suo interno, in relazione al tipo di campionato che si gioca. Partendo da quest’ultimo aspetto credo sia palese come sia diverso giocare in serie A e via via a scendere nelle altre declinazioni dei vari campionati passando per la B, la C, la lega Dilettanti. La differenza è da collocare, oltre che dal punto di vista economico, e mi riferisco al “compenso” percepito da un calciatore di A ( con ancora altre sostanziali differenze per il compenso di fuoriclasse o campioni super pagati e gli altri ) e quelli delle serie cosiddette minori, anche rispetto all’assetto societario dei club, della loro forza economica e organizzativa, del contesto sociale dove la squadra risiede. Non c’è alcun dubbio che una società calcistica più si sale di livello e più ha necessità/opportunità di delinearsi come una vera e propria azienda economica. Caratteristica questa che in un momento particolare come quello che stiamo vivendo incide fortemente su tutti gli aspetti di quello che potremmo chiamare il “prodotto finale” cioè la partita, il risultato, le prestazioni dei singoli.
Venendo invece agli aspetti più psicologici dobbiamo sottolineare tre elementi che caratterizzano il gioco del calcio . Il primo è legato alla centralità del corpo che diventa il vero e proprio elemento necessario, indispensabile, ineludibile. La posizione in campo, il gesto tecnico, il contrasto con l’avversario, il ruolo da svolgere richiedono una capacità di gestione del corpo sempre presente e al massimo livello possibile. Il calcio inoltre è per definizione uno sport di “contatto fisico” e questo inevitabilmente pone una serie di interrogativi in un momento il cui la necessità di distanziamento sociale contrasta già con il concetto di prossimità figuriamoci con quello di contatto. Questo è un primo aspetto che il calciatore dovrà tenere presente e si comprende come ovviamente diventa limitante e “diverso” rispetto a quanto invece era chiamato a realizzare prima. Si pensi al solo gioire e all’abbraccio con i compagni che non sarà più possibile e come questo simbolizzi il completo “blocco” fisico delle emozioni. Il secondo aspetto è legato al concetto di squadra e quindi a quello di lavoro di squadra che è presente anche in moltissimi altri lavori (si pensi al settore sanitario) ma he nel calcio vede estremamente valorizzato l’aspetto agonistico e l’atto di finalizzazione (il gol, la parata, la vittoria, il risultato, le conseguenze in classifica ecc.). I risultati si sa sono la somma di vari elementi e l’organizzazione di squadra, la coesione, “lo spogliatoio” come si dice con una immagine riassuntiva e sintetica, hanno la loro importanza. Il terzo aspetto riguarda la capacità di gestione delle società e non è solo legata al “potere economco” , che non è da sottovalutare, ma richiama alla presenza di un’organizzazione interna che sappia cogliere anche le variazioni soggettive e quelle dello spirito di squadra cui si faceva riferimento prima. Essere attrezzati per far concentrare l’atleta nel modo migliore verso la gara, nel sostenerlo dal punto di vista emotivo per una prestazione che sarà “sotto gli occhi degli altri”, è certamente un fattore importante nella gestione delle singole psicologie dei singoli atleti, nei vari momenti della loro individualità e del percorso di squadra. Spero adesso possa essere chiaro come, per rifarmi alla domanda originaria l’approccio psicologico di un calciatore chiamato a giocare in questa situazione di emergenza risenta di molti fattori e rientri in una certa indeterminazione preventiva, cioè non è possibile generalizzare una risposta, ma invece si possa comprendere la necessità di “personalizzare” la conoscenza di ciascuno e sostenerla al meglio per la ripresa dell’attività.
- Quali potrebbero essere alcuni suggerimenti per la gestione mentale degli allenamenti e della preparazione alla gara?
Oltre alla giusta attenzione all’aspetto fisico, che abbiamo visto è centrale nel gioco del calcio, è importante avere la possibilità di momenti di condivisione sui vissuti soggettivi sia di questo periodo che della proiezione verso il futuro. Far comprendere che comunque la pausa, che in realtà è diventata una vera e propria interruzione, possa essere un tempo per riflettere e cambiare i propri punti di vista, comprendere le proprie fragilità e le proprie risorse, valorizzare il senso di squadra, comprendere l’utilità/necessità di tutti, rivedere e scomporre i gesti atletici e tecnici al fine di migliorarli, collocarsi mentalmente ma con “spirito di lavoro” e non di “sacrificio”, nell’immaginare e prepararsi a giocare in periodi dell’anno non abituali, rispetto al passato, ma necessari oggi e, mi verrebbe da dire, da accogliere con maturità e senso di responsabilità anche rispetto ad altre categorie di lavoratori certamente meno fortunati.
- Nell’ipotesi che invece non si riprendesse a giocare, cosa potrebbe succedere psicologicamente ai calciatori coinvolti nella serie A?
Anche qui ci sono differenze individuali che saranno tali da rendere diverse le reazioni: dal puto di vista economico, da quello del progetto futuro, da come viene vissuto e utilizzato quanto “perso”, dalle garanzie societarie, dal rapporto con i procuratori, dal danno o dai vantaggi soggettivi ecc. Entriamo in una girandola di variabili talmente mutevole che fare previsioni generalizzate rischia di farle diventare solo generiche e senza alcun senso.
Quali consigli per la gestione di un periodo lungo in assenza di allenamenti e competizioni? Quello che molte squadre hanno attivato va bene : allenamenti da casa, contatti continui con lo staff tecnico e societario, simulazione della condizione agonistica con l’uso delle risorse mediatiche e dei giochi tecnologici. Molto bene anche le iniziative di solidarietà che danno un senso di appartenenza alla squadra e alle persone del contesto. Ritengo utile l’attivazione sempre di incontri di gruppo, in cui la squadra tramite video conferenza possa mantenere anche il contatto visivo e condividere le emozioni del momento, la gestione delle pause, le impressioni su un film visto, su un libro letto, sorridere e divertirsi e così via.
- Quale potrebbe essere un corretto approccio mentale anche per i tifosi?
Non posso nascondere che la mia risposta è più una speranza che una sola indicazione: questa interruzione, l’aver dovuto “staccare la spina del tifo”, potrebbe far recuperare il senso della lealtà sportiva a partire dal riconoscere l’altro come avversario, non come nemico (anche fisico), il sostenere la propria squadra ma nel rispetto del valore degli altri. Il calcio, io credo, sia una grande metafora della vita dove si alternano le fortune proprio come nella nostra esistenza, dove anche i “grandi” passano, dove l’avversario di oggi sarà domani un giocatore della mia squadra del cuore o viceversa. Dove un episodio condiziona, nel bene e nel male, un risultato, dove l’elemento umano dell’errore o dell’impegno portano ad un finale lieto o amaro che sia. Tutto proprio come nella vita che non sempre possiamo decidere da noi ma con cui dobbiamo confrontarci e nella quale le soprese, e lo stiamo vedendo in questo periodo, non mancano. Io mi auguro una ripresa dove lo spettacolo e lo spirito sportivo possa finalmente vincere sull’uso aggressivo di un senso di appartenenza estremizzato, sull’identificazione territoriale della squadra quasi come forma tribale, e peggio ancora sull’uso politico o personalistico. Insomma uno sport in cui ancora stringersi la mano ad inizio e fine competizione, non solo tra atleti, ma anche tra spettatori possa essere la regola e non l’eccezione. Dove lo sport torni ad essere spettacolo e simbolo del progresso dell’uomo verso se stesso, il proprio sentire, l’andare oltre un limite e non qualcosa da esporre, sbandierare, e usare “contro” qualcuno nell’effimera illusione di una vittoria “per sempre”.
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