–Un’eredità preziosa da conservare
–di Adalberto Scemma–
Come i gatti, che quando s’accoccolano scelgono a istinto il loro “sito d’energia”, anche Gianni ne aveva uno. Gianni Mura, dico, che non sapeva di sciamani e di magheggi zen ma che puntava dritto, ad ogni sua sosta mantovana, verso il pergolato di “Amici Miei”. Qui il “Cina” aveva creato, pure lui a istinto, un suo personalissimo, ineffabile sito d’energia gratificato, come scriveva Gianni, “da una bottiglia di Lambrusco bello scuro e da una sleppa di grana”. E mettiamoci pure, ma non di contorno, il salame di Breda Cisoni, i ciccioli, i cipollotti di Sermide e il bizzolano come chiosa. La ricchezza, perché no? della cucina povera. Quella che anche per Gianni, come per l’antico gonzaghesco Bartolomeo Stefani, era cucina di principi e di popolo, strettamente legata alla storia della società e alla sua evoluzione.
Quella mantovana, anche agli occhi di Gianni Mura, è una storia fuori dal tempo. Il grigio-luce di nebbie ovattate attenua la percezione di pensieri e di cose scanditi in velocità. Un filtro prezioso che aiuta a distillare persino le parole. Non ne servono più di tante per raccontare un’emozione. E il sito d’energia del “Cina”, certifica Gianni, azzera ogni titubanza: “A un certo punto penso che siamo indietro nel tempo, o forse fuori dal tempo. Quando mi ricapiterà di fare un’intervista sotto un pergolato, senza che l’intervistato guardi l’orologio ogni cinque minuti? E con un intervistato che parla senza reticenze? E’ qui che capisco quanto sia forte il legame tra compagni di squadra, anche ragazzini, che si separano ma non si perdono…”.
L’intervistato è Roberto Boninsegna (Gianni è qui per i suoi 70 anni festeggiati con i cassintegrati della Burgo), e i ragazzini -ahi quanto tempo, quel tempo che non esiste…- siamo noi degli Invincibili di Bonimba, noi del Sant’Egidio storico dell’Anconetta e delle rivalità puntute con Aquilotti e Mantovana, con la Vigor di Giovanni Caltagirone e la Nuova Azzurra di Luigino Bianchi, storie d’oratori che anticipavano nei cortili squadrati delle parrocchie le gabbie d’Orrico e d’Arrigo (Sacchi). Storie calciofile con una funzione d’apripista come quelle del “Nacka” Scardeoni, che tradì Kubala per il Caravaggio, o di Roberto Pedrazzoli, che lottizzò in pittura ettari di cielo e biolche di nuvole, storie ineffabili perché introducono squarci di vita e di culture mai del tutto sedimentati, riportati alla conoscenza con l’allegria guascona di chi s’affida alla leggerezza dei toni, così lontana dalle pedanterie grevi dei tromboni di provincia. Così era Gianni Mura, finalmente affrancatosi (a fatica, ma il tempo è sempre galantuomo) dall’etichetta comoda-scomoda di un “brerismo” imposto dalla critica superficiale o più verosimilmente da una catalogazione di comodo. Gianni era l’erede designato di Brera, certo, non tanto per le analogie, peraltro soltanto supposte, del linguaggio, quanto per l’insopprimibile lezione di carattere etico: quel suo sguardo volto sempre con acume al “fuori”, a una dialettica nobilmente orchestrata tra sport e contesto sociale.
Quante volte, con Gianni, ho azzardato (senza esito) l’approfondimento di carattere tecnico. Lui capiva di calcio, certo, ma ne discuteva più di testa che di cuore. Diverso l’approccio con il ciclismo, dove emergeva l’afflato della passione. Ma nel calcio, dopo un incipit di prammatica, lui era già altrove, e da quell’altrove spremeva dalle vicende del quotidiano, dalle loro stucchevoli banalità, ogni proponibile giudizio civile. Senza mai accedere al pulpito del moralismo, attenzione; piuttosto con un esercizio di leggerezza, con un tocco di incantevole disincanto. E qui era talvolta percepibile il disagio di dover scrivere di calcio in tempi così moralmente sgrammaticati e alieni rispetto a chi nell’etica ha un costante punto di riferimento. Sia pure a malincuore, Gianni si scopriva sempre più spesso analista del disagio, salvo evitare con sapienza in “Sette giorni di cattivi pensieri”, storica rubrica, ogni tentazione bacchettona. Ma c’è di più. Gianni aveva la capacità di adeguarsi al livello del lettore senza scendere mai di tono, senza un filo di narcisismo, con quel suo italiano “splendido, semplice, nitido”.
Gilberto Lonardi, cattedratico insigne senza mai montare in cattedra, paragonava il linguaggio di Mura a un adorabile film in bianco e nero, il discorso che fluiva privo, o quasi, di “colorate, screziate punte linguistico-espressive e che assumeva di conseguenza una costante naturale”. Ma allora addio, in questo, al Brera espressionista e a ogni scollinamento nel variopinto territorio dei neologismi. Gianni Mura era già oltre, anche perché riusciva a far coincidere con semplicità, senza equilibrismi dialettici, la sua caratura di intellettuale ricco di impegno, e di enciclopedici interessi, con la curiosità bulimica del popolano. L’ha detta giusta Michele Serra: la persona e le parole erano la stessa identica cosa, erano materia della stessa vita.
La narrazione di Gianni Mura da parte dei critici militanti (quelli veri, quelli esenti da puzzette radical-chic sotto il naso) aveva finito inesorabilmente per coincidere con gli studi e gli approfondimenti après Brera. Proprio a Mantova, nella settecentesca aula magna del Liceo Virgilio, si era tenuto nel febbraio scorso il convegno per la celebrazione ufficiale del Centenario del Gioànn. Presenti i “senzabrera” storici, di matrice sia universitaria che giornalistica, ma non Gianni Mura defilatosi, lo confesso, su mia indicazione. “Mi insegue ormai da decenni -argomentava sottovoce- l’etichetta di erede di Brera. Ma non è così. Prima di tutto perché Brera, inimitabile, non ha lasciato eredi. E poi perché a settant’anni e passa credo di aver diritto a una mia umile identità personale…”.
Il timore che il suo chiamarsi sommessamente “fuori dal coro” venisse scambiato per supponenza lo avrebbe indotto a vincere comunque ogni perplessità e ad aggregarsi alla pattuglia festosa dei “senzabrera”. Ma qui credo sia intervenuta la comune origine sarda che consente, per chissà quali arcani sortilegi, di anticipare la percezione dei sentimenti. Mi era bastato guardarlo in viso per evitargli l’affanno di un diniego. “Gianni, a Mantova…non venire”. “Grazie, hai capito. Sei un amico vero. Parola d’ordine: Fortza paris!”. Che in sardo vuol dire “avanti insieme”. Era il grido di battaglia della “Brigata Sassari”, dove nessuno voleva subire l’onta di andare all’assalto in seconda linea. Tutti avanti ma “alla pari”, l’uno di fianco all’altro. Fu poi Gianni, per il medesimo indefettibile motivo, a suggerire il mio nome per sostituirlo pochi mesi più tardi nel prestigioso reading culturale “Giornalisti nella storia”, organizzato a Cosenza dal “Quotidiano del Sud” per celebrare Giuseppe Fava, Enzo Biagi, Oriana Fallaci e, appunto, Gianni Brera.
A sdoganare criticamente Gianni Mura dal retaggio breriano ha contribuito, proprio in occasione del convegno mantovano, l’autorevole Franco Contorbia, autore dei quattro volumi sul giornalismo italiano dei “Meridiani” Mondadori e curatore di prestigiose operare monografiche su Montale, D’Annunzio, De Amicis e, di recente, su Bernardo Valli, insuperabile inviato speciale (“La verità del momento”, reportage tra il 1956 e il 2014”). Si era parlato, e a lungo, durante la cena di commiato, anche di un convitato di pietra a nome Gianni Mura. E Contorbia, neppure troppo a sorpresa, mi aveva confidato la necessità di “cominciare a pensare” a un lavoro critico molto articolato (sul tipo dei “Quaderni dell’Arcimatto”, per intenderci) che analizzasse in profondità l’opera di Gianni con i medesimi criteri utilizzati per Brera. Perché se è vero che Brera ha occupato per un trentennio, senza intrusioni di sorta, lo scanno regale del giornalismo sportivo, è altrettanto vero che la stessa aurea dimensione è toccata a Mura nel trentennio successivo.
Si chiude, a questo punto, un cerchio ideale di comunanza sul filo di una sensibilità giornalistica che non ha più bisogno né di date né, men che meno, di confini anagrafici. Perché i “senzabrera” vanno per un naturale processo di osmosi sentimentale a coincidere con i “senzamura”. Dove lo spazio per la nostalgia si dilata senza che intervenga alcun tipo di compressione. Con un’unica sostanziale differenza: mentre Brera, virulento provocatore-dissacratore, depositario di un marchio letterario di volta in volta irato, sarcastico, appassionato, ha spaccato in due un mondo giornalistico-letterario soffocato dai rigurgiti dannunziani, Mura ha regalato al popolo dei suoi lettori una congerie di strepitosa partecipazione umana ai fatti che andava a narrare senza per questo dividere il mondo variegato della critica sportiva. Nessuno come lui ha saputo toccare con commozione, e con pudore, le corde del sentimento. Ma lo ha fatto con la dolcezza ruvida (ossimoro d’obbligo) di chi dai sentimenti non vuole lasciarsi sopraffare, latore anche in questo di una sua inalienabile “sarditudine”.
Come per Gianni Brera, anche nel caso di Gianni Mura c’è ora un’eredità preziosa da tutelare. L’affetto che lo ha circondato in vita fa da collante a ogni possibile, e prevedibile, iniziativa. Ma anche in tal caso c’è una dimensione ben precisa da rispettare: la capacità di sapersi collocare “fuori dal tempo”. Perché Gianni era a suo modo un personaggio antimoderno. “Gli volevamo bene -ha scritto Michele Serra- anche per questo suo anacronismo eroico, e forse preveggente: non era in ansia per la nostalgia della vecchia Olivetti ma perché faticava a ritrovare, nei tempi nuovi, quegli elementi di amicizia e di convivio -oso dire di fraternità e di amore- che sono stati la sua ragione di vita”.
Ecco dunque che torna attuale l’immagine rassicurante del pergolato, che doveva somigliare nell’ immaginario di Gianni a un arco protettivo. Non è mai stata casuale la scelta. Così come per il mantovano “Amici Miei”, dove Bonimba raccontava di sé e degli Invincibili, anche in altre analoghe situazioni la presenza del pergolato -quasi un passepartout per agevolare ogni tipo di conversazione amicale- si è precisata all’unisono con la certezza di una sontuosa, sanissima cucina “da osteria”. Che era tale a prescindere dalla caratura più o meno stellata del luogo. Al vertice del gradimento di Gianni (vedere i 100 nomi del 2019, su “Repubblica”) c’era proprio la trattoria “Ai Due Platani” di Coloreto, periferia di Parma, dove un nobile pergolato ospitava per tradizione il nocino conclusivo del convivio dei “senzabrera”. Nasceva qui la dorsale dei “Quaderni dell’Arcimatto”, che ha licenziato in occasione di Mantova Città Europea dello Sport il quinto volume della serie. Percepibile anche qui il legame saldissimo con Mantova perché Giancarlo Tavani, il patron di “Ai Due Platani”, ha perfezionato l’arte della cucina a Quistello, sotto la guida dei fratelli Tamagni.
Altro “sito d’energia”, con l’immancabile pergolato, la trattoria “Al Pescatore” da Mino alla Sacca di Goito, gratificata come il “Cina”, come “I Ranari” di Giuseppe Maddalena o come la Locanda delle Grazie, da una pagina di Gianni sul “Venerdì” di “Repubblica”. Luigi Bolognini, quello de “La squadra spezzata”, la storia romanzata della Grande Ungheria, è stato da sempre il testimone attento di ogni scelta giornalistica o enogastronomica di Gianni. Avrà il compito di tenere ben salda la barra dei ricordi, che non vanno dispersi ma tutelati come i pensieri di impareggiabile leggiadria (i cantautori, i poeti, i giochi di parole…) catapultati in quel quaderno a quadrettoni che aveva per Gianni il significato della copertina di Linus. E’ il ruolo che lo scrittore Andrea Maietti (“La lepre sotto la luna”, “Ribot e il menalatte”) ha esercitato ed esercita come raffinato custode-interprete della memoria breriana.
Si ridisegnano d’acchitog i ruoli dei “senzabrera” & “senzamura”. E così toccherà al talentuoso Claudio Rinaldi (direttore della “Gazzetta di Parma”, autore con Paolo Brera dell’ormai classico “Gioànnfucarlo”) e all’irrinunciabile Alberto Brambilla, che dirige con me i “Quaderni dell’Arcimatto”, saldare le anime di due mondi culturali che s’interfacciano con solare semplicità perché se Brera non ha lasciato allievi nel linguaggio giornalistico, li ha lasciati però nel modo di interpretarne la lezione etica. E qui s’intravvede, accanto alla figura di Gianni Mura, la presenza di un Angelo Carotenuto ancora carico di energia, che ridisegna a Slalom percorsi di pirotecniche vibrazioni. E poi Beppe Smorto, stratega di “Repubblica” e di “Cielito Lindo”, lui e Silio Rossi come un mantra canoro lungo gli altopiani del Messico, ed Emanuela Audisio, che di Gianni ha l’anima poeticamente ruvida al femminile. E poi, su altri versanti culturali ma ugualmente carichi d’emozione, dove la cronaca del reale prende curve lessicali dolcissime prima di proiettarsi nei territori dell’”altrove”, ecco il ritmo favolistico di Claudio Gregori, lo spleen sincopato di Massimiliano Castellani e l’affettuoso “rimbombo sonoro” di Tony Damascelli, campione d’umanità, teso da sempre a mettere la sordina al cuore. Furio Zara e Lorenzo Longhi, new deal sull’onda, hanno già ben saldo tra le dita il bastoncino della staffetta. E Stefano Bizzotto può concedersi digressioni alate (copyright Mura) mixando microfono e tastiera. Chi ha detto che il giornalismo sportivo non c’è più?
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