di Marco Impiglia – Gruppo dei Romanisti
Giovedì 19 dicembre, nel tardo pomeriggio, si è svolto, all’Istituto “Elsa Morante” in via Zabaglia, il convegno «Campo Testaccio ciai tanta gloria…», dedicato al terreno di gioco della AS Roma negli anni ’30 del ‘900. Organizzazione Unione Testaccio Ex Allievi don Bosco, con il patrocinio, tra gli altri, del Panathlon Club Roma, con la partecipazione del Presidente del CONI regionale, dott. Riccardo Viola. Relatore il dott. Marco Impiglia. Il sottoscritto che nel 1996 pubblicava, per i tipi della R. Viola editrice, il volumetto Campo Testaccio.
Attraverso una nutrita mole di documenti audio-visivi, includenti un’intervista del giornalista RAI Sandro Ciotti a Fulvio Bernardini, l’amatissimo “Garibaldi del Testaccio”, è stata sciorinata alla platea una disamina completa dell’epopea testaccina.
Undici anni intensi, dal 1929 al 1940. Saga che, pur non regalando la gioia dello scudetto (vinto nel 1942 allo Stadio Nazionale), ha segnato, e diremmo “marcato”, una volta per tutte il carattere del tifo giallorosso.
È bene ricordare che Campo Testaccio non è stato, in assoluto, la prima dimora della neonata Associazione Sportiva Roma. Merito che spetta al Velodromo Appio, altro impianto sportivo scomparso. E tuttavia, esso si lega al mito e sta alla base dell’identità del sostenitore della “Magica”. È la sua infanzia, fa parte della weltanshauung di un popolo.
Dire “Testaccio” è dire “la Roma dei romani”, la “Roma di una volta”, la Roma del sentimento. La Canzone di Campo Testaccio, un tango milonga riadattato nelle parole e che veniva intonato dagli spalti nei momenti più felici, ben rappresenta questo lascito; e non a caso, un suo verso è rientrato nel titolo stesso del convegno. La “gloria” del Testaccio è data dalle res gestae dei suoi campioni più eccelsi: Ferraris IV, Volk, Mattei, Costantino, Guaita, Bernardini, Masetti, Amadei. Ciascuno dei quali, come ai tempi della Roma papalina dei bulli, munito di acconcio nome di battaglia (“Omo de fero”, “Sciabbolone”, “Bibbitone, “Faele”, “Corsaro Nero”, “Furvio”, “Fornaretto” ecc).
L’impianto costò circa un milione e mezzo delle vecchie lire: molto meno delle centinaia di milioni di euro che si accampano oggi. Sorse su un terreno occupato da un deposito all’aperto di selci, mezzo abbandonato, col vecchio lavatoio pubblico accanto. Fu concesso in usufrutto alla AS Roma dal demanio. Motivo per cui, nell’estate del 1940, come da contratto (ventennale, ma che consentiva al Comune di invalidarlo ad ogni momento previo una modesta mora), giunsero le ruspe a sbancare ogni cosa. Ci si volevano mettere dei giardinetti pubblici, e invece, nel caos della guerra, vi si piazzarono nel 1944-45 le officine abusive e i lamierati che ancora stanno lì. Sotto, lo sappiamo per certo, ci sono, incredibilmente intatti, gli spogliatoi dello stadio. E una botola, aperta per sbaglio e subito richiusa molti anni fa, consentirebbe l’esplorazione agli arditi archeologi del Comune che volessero avventurarvisi.
Magie e scoperte di Campo Testaccio! Un terreno per il giuoco del calcio in stile inglese, quadrato e tutto in legno. Che fortunatamente non bruciò mai, come è accaduto, a più riprese e con molte vittime, in Gran Bretagna nel dopoguerra. Le balaustre con modanature liberty erano dipinte di rosso porpora e giallo “becco d’anatra”. Venticinquemila spettatori la capienza ufficiale, ridotta di un quarto dopo una ristrutturazione che intese rialzare in cemento armato la gradinata dei distinti.
Dalla sommità del prospiciente “Monte dei Cocci”, nei pressi della settecentesca croce in ferro, si poteva vedere una parte del campo. I tifosi senza biglietto, per i match di cartello, vi si radunavano portandosi da casa seggiole di legno con supporti metallici che consentivano di ripiegarle. (Le abbiamo viste di recente con i nostri foschi ocula, nel numero di quattro da un antiquario, prezzo 600 euro…).
Nelle cantine di alcune famiglie “indigene” del quartiere, sopravvivono, se si va a scavare, fantastiche reliquie del sacrario giallorosso. Oggetti che farebbero il paio con la “Lupa” a sbalzo trasportata al centro sportivo di Trigoria e che stava bella all’entrata di via Marmorata. Gli altri lati del quadrato di Marte caro alla ASR in epoca mussoliniana, erano costituiti da via Galvani, via Nicola Zabaglia e via Caio Cestio (i palloni più alti, ci raccontava Amedeo Amadei, finivano nel “camposanto de li Inglesi”, a rotolare beati fra Keats e Shelley). L’attuale “valle”, che sembra una ferita aperta e fa paura di notte, piena di fantasmi com’è, non corrisponde all’originaria collocazione dell’impianto, bensì a quella del “Testaccio bis” inaugurato negli anni ’80 per ospitarvi gli eventi della AS Testaccio.
Il presidente Dino Viola, legato al Campo da languorosi ricordi, volle così riproporre il sito. Nel tentativo di salvare il mito. Sotto un altro grande presidente scudettato, Franco Sensi (il cui babbo Silvio non costruì l’impianto, che fu piuttosto opera di una ditta veneziana individuata dall’allora presidente Renato Sacerdoti), mantenne lo statu quo. Che poi si perse per motivi tanto intricati e, al contempo, così tipicamente “romani” (burocrazia e cattiva politica), che qui neppure osiamo impicciarcene.
Epperò, se soltanto pensiamo che Campo Testaccio ha vissuto l’infanzia del tifo romanista, e che personaggi come Alberto Sordi e Giulio Andreotti ne hanno calcato gli scricchiolanti e ondeggianti spalti (l’Albertone ci confessò che se ne andava sul Monte, a vedere aggratise i “lupi”), un sentimento di profonda tristezza ci pervade. A noi tutti vecchi romani, di fede giallorossa o biancazzurra non importa. Noi che abbiamo a cuore la memoria della Citta Eterna. La sua identità sempre più minacciata dai “tempi moderni”.
Certo, eterno Campo Testaccio non è stato. Anzi, non arrivò neppure all’adolescenza. Lo guardiamo ora con gli occhi dell’immaginazione. E ci appare come un bambino. Un monello con i calzoni tagliati corti al ginocchio, la camicetta sporca, le scarpe mezze sfondate, il berrettino alla Andy Capp a coprire i capelli color varechina. E che ci osserva da sotto in sù, col suo visetto sfacciato pieno di lentiggini. Uno di quelli che vendevano alla domenica, a venti centesimi di lira, i match-program della sfida alla Juventus, al Bologna o all’Ambrosiana-Inter. Glielo vogliamo comprare? Forse sarebbe il caso