di Massimo Rosa
La domanda che si legge nel titolo è quella che ho rivolto all’illustre professore al termine del nostro interessante colloquio, svoltosi in una calda ed umida giornata di ottobre di qualche anno fa.
Franco Chierego è il prototipo, infatti, dell’esploratore, o se meglio preferite è un “ Indiana Jones “ ante litteram.
Dal nord al sud, dall’est all’ovest non c’è angolo di terra o di mare che non conosca. E, si badi bene, che il peregrinare per il mondo non lo ha fatto prenotando comodi viaggi in agenzia, bensì grazie alla propria intraprendenza se li è organizzati da solo, studiandosi le carte geografiche e topografiche, e tutto ciò accadeva a cavallo degli anni cinquanta ed ottanta, quando il viaggiare non era cosa di tutti i giorni.
Ha scalato montagne importanti, stando in compagnia di alpinisti che hanno fatto la storia di questo sport: Messner, Cassin,……
Ha fatto il sub in mari incredibili, ha attraversato le Ande: insomma non c’è angolo di questo mondo che non conosca, e dove non abbia vissuto avventure nella più alta definizione salgariana.
“Faccio il sub ancora – esordisce – arrivo a 70/80 metri. Ho appena terminato di scrivere un libro sulle “malattie da decompressione”, lo pubblico adesso”.
E’ difficile mettere ordine nel suo racconto, perciò mi limiterò a riportare quanto Franco narra, con entusiasmo, le esperienze di una vita scandita da “movimento e forte emozioni”, rivivendole ad una ad una mentre lo sguardo se ne va lontano in un altro mondo, in un altro tempo: è in fuga verso quell’universo che da sempre gli appartiene.
Da bambino ha conosciuto la montagna, dov’era andato a sciare, all’età di otto anni: ed è stato subito amore.
Giovanissimo con un “veronese de soca”, l’ingegner Gino Biasi, come racconta, va a fare una gita sul Catinaccio, da dove si gode una vista incredibile.
Quel giorno le Tre Cime di Lavaredo si stagliavano maestose e provocanti, come lo sanno essere le vette dolomitiche immerse nel cielo azzurro-cristallino.
Gino legge negli occhi di quel ragazzino l’emozione che prova davanti a tanta bellezza mozzafiato, ed all’improvviso dice “dai che andiamo a fare una salita”, lo dice quasi leggendo nel suo pensiero. E così, per la prima volta, affronta pareti di II e III grado, completamente slegato “ed io mi sono entusiasmato”.
D’allora si è arrampicato ovunque, e nelle condizioni più disparate: rocce e ghiaccio entrano nel suo DNA.
Nel 1950 è istruttore di alpinismo, divenendo poi membro della Commissione Nazionale Scuole Alpinismo del CAI, e successivamente presidente per otto anni.
Con il suo amico Milo Navasa, primo accademico del CAI veronese, fonda la scuola di alpinismo “Prearolo”, che diviene in breve tempo l’università della “roccia” scaligera. Così continuerà sino alla fine della sua carriera d’alpinista, facendo tutte le salite possibili ed immaginabili, spesso da solo.
“Mi ricordo – continua – quand’ero studente in medicina che andavo a Cortina, dove i miei genitori avevano una casa in affitto, a studiare tra le sessione di luglio e quella di settembre, dove un giorno studiavo e l’altro mi arrampicavo su pareti di IV e V grado, quasi sempre da solo. Poi ho incontrato Milo Navasa, alpinista meraviglioso, prima che divenisse accademico, e con lui mi sono trovato subito bene. Abbiamo fatto sempre salite slegati”.
Si laurea, si sposa, ma il suo spirito, anziché adeguarsi sulla lunghezza d’onda di una nuova vita da dividersi tra famiglia e lavoro, è in continua ebollizione: il richiamo della sfida è troppo forte in lui, lo stare troppo tranquillo è una sorta di castrazione. E lui ne soffre.
Intanto Bonatti e Laccedelli nel 1952 conquistano la più alta vetta del Karakorum, quella del K2. Sei anni più tardi alle perle dell’alpinismo italiano si aggiunge quella del Gasherbrum IV, anch’esso nella catena del Karakorum.
E’ un’altra vittoria esaltante che fa fremere di piacere e di desiderio di conquista Franco, il cui spirito è sempre alla ricerca di nuove emozioni da vivere. L’occasione gli capita quando è a Milano dov’è impegnato a studiare all’Istituto dei tumori per divenire libero docente.
“Si affaccia nell’aula il custode dicendomi che il presidente del CAI, in quei tempi era Bertinelli presidente del Senato, vuole parlarmi. Dica che terminata la lezione e lo richiamo”. La curiosità, neanche a dire, s’impadronisce del nostro protagonista.
“ Vuole andare sul Karakorum a fare una spedizione con Cassin, Bonatti e Mauri ? – Oh madonna, quando si parte? – Venga qua che ne parliamo”. Terminata la lezione sì fionda nella sede del CAI, situata nel centro di Milano. Una volta a colloquio con il presidente, questi mi parla della spedizione, dicendomi che manca il medico: “Eccolo qua, ci vado io”.
Chiede il permesso di lasciare il corso per andare a fare la spedizione. Il professore, che non doveva essere un grande sportivo, scetticamente gli dice “ Ma cosa vuole andare a fare in montagna. Vada sul Mottarone, che si diverte di più. Se vuole andare vada.”
Molla il bisturi, continua nel suo racconto, e si precipita a Verona per dare la bella notizia. “ Entro felice dalla porta di casa, trovando mio fratello Giorgio, che non mi da neanche il tempo di parlare per dirmi che nostra madre è caduta e si è rotta il femore. Addio Karakorum”.
L’anno successivo ha l’altra grande occasione, quella di andare sulle Ande, prende la madre e la siede per terra: “ Stai ferma lì perché se questa volta ti rompi è solo colpa tua. Io tra due mesi vado sulle Ande”, dove poi rimarrà tre mesi.
L’anno successivo ritorna in Sudamerica per fare una spedizione, 14.000 km percorsi, a carattere naturalistico-archeologico, che partendo da Lima arriverà ad esplorare la foresta amazzonica.
“ Tra i ricordi di quel viaggio, uno mi è rimasto impresso più d’ogni altro: il parto di una donna.
Eravamo arrivati in un piccolo villaggio arroccato sul cocuzzolo di una collinetta, ai cui piedi scorreva il fiume. Le capanne erano abitate dalla pacifica tribù degli “Agua”. L’accoglienza, che ci riservano gli indigeni, è gentile, anche se sono sospettosi di noi, come logico sia. Uomini e donne sono completamente nudi. Una donna mi colpisce per il suo grosso ventre, segno ch’è ormai arrivata a fine gravidanza. La guida mi dice di non guardarla troppo perché lo stregone potrebbe essere geloso, e quindi infastidirsi, con conseguenze spiacevoli per tutti noi.
Ad un certo momento alla futura mamma si rompono le acque, e con la calma più olimpica possibile, accompagnata da un paio di altre donne scende verso il fiume. Chiedo di seguirla per assistere al parto: il permesso mi è concesso.
Arrivati giù, assisto al parto più incredibile della mia vita. La donna, mentre le altre due scavano una buca, se ne sta lì accucciata senza dire una parola, quindi, una volta terminato lo scavo, lei vi si mette dentro, e senza mai lamentarsi da alla luce un bimbo. Una delle due donne lo raccoglie e lo va a lavare nelle acque limacciose del fiume, mentre l’altra raccoglie una conchiglia tagliente e recide il cordone ombelicale. La puerpera intanto si sforza di fare uscire la placenta. Una volta uscita si affretta a lavarla, quindi la mette in bocca, deglutendola nello stomaco.
Bisogna sapere che la placenta contiene un ormone della lattazione. Lo stesso comportamento di quella donna lo hanno anche gli animali, per questo diviene un atto necessario.
Dopo aver ingurgitato la placenta, si carica il neonato sulle spalle, in una specie di seggiolino fatto al momento, e, come se niente fosse, ridendo e scherzando ritorna al villaggio.
E’ un episodio questo che mi ha colpito fortemente per la sua semplicità e naturalezza, pensando soprattutto come sono diversi i comportamenti femminili al momento del parto nella nostra società”.
Tra i suoi viaggi v’è anche un’ascensione sul monte Ararat, quello dove si racconta esserci l’Arca di Mosè.
Poi via in Afghanistan per fare un libro sociologico su quelle genti, ascendendo il Babatanki di 6.600 metri d’altezza in compagnia di Giancarlo Biasin, accademico del CAI. Fa suo dodici mesi dopo il Girodag, altra vetta di 6.000 metri.
Poi viene l’invito di salire sulla quarta vetta del mondo in compagnia di Messner e Cassin, ma qui l’acclimatazione è frettolosa e Chierego è colpito da edema polmonare, dovendo così rinunciare alla conquista, anche se avrebbe voluto, una volta stato meglio, proseguire nell’impresa, ma i compagni di viaggio glielo impediscono. Lo stesso Messner, in quell’occasione, si era dovuto fermare al secondo campo, mentre Cassin aveva una testa come un melone. La spedizione quindi fallisce.
Nella sua avventurosa vita si contano anche due scoperte subacquee: una in Afghanistan, ed una a Lazise.
“Si era saputo che in una certa zona a nord dell’Afghanistan, in quella curda al confine con l’URSS, nelle vicinanze della catena dell’Hindokush, della Cina ed il Pakistan, aveva vissuto la civiltà degli Urartei. Lì, per quel che erano le nostre informazioni doveva esserci stata la città di Qurart, sprofondata nel lago Van. E così, infatti, era.
La certezza, e quindi il successo della spedizione, l’abbiamo avuta dopo ch’io mi sono immerso sino ad una trentina di metri, scoprendo delle mura di cinta alte almeno venti metri ancora intatte. Una cosa strabiliante ed unica al mondo”.
Gli afgani li definisce buona gente, mentre qualche dubbio sulla bontà e comportamento oxfordiano dei curdi ha qualche perplessità. Perplessità di vita vissuta, come quando allontanatosi in auto, di poco dal campo, e salito su una collinetta, si vede circondato da gente non proprio raccomandabile che lo vuole derubare di tutto oltre fargli la pelle, e solo l’intervento di uno di loro lo salva.
L’altra scoperta, meno avventurosa e più tranquilla, è quella che riguarda, dopo un periodo di sette anni di lavoro, assieme a Giorgio Sereni ed a Paolo Galtarossa, la “galera veneziana” antistante le acque di Lazise.
L’attività di sub la iniziò intorno al 1947/’48 in quel mar di Sardegna che sarebbe divenuto a partire dagli anni ’60 quello più amato dai vacanzieri. Da lì in poi non c’è fondo marino di qualsiasi continente che non abbia frequentato.
Ma l’irrequieto personaggio ha compiuto anche altri tipologie d’imprese che nulla hanno a che vedere con la montagna e con il mare, come quella volta che andò a capo Nord in pieno inverno: “Sono stato a Capo nord, con due Fiat 125, perché bisognava testare l’acclimatizzazione del mezzo a temperature molto basse. Con le auto, dell’allora concessionaria Fiat Benvenuti e Calzavara, andammo in sei giorni, tra andata e ritorno, a cavallo del Natale e Capo d’Anno. La prima volta arrivammo sull’isola di Capo nord, ma un muro di neve a 18 km dalla meta, alto come un grattacielo, c’impedì di giungere al punto estremo d’Europa. Il secondo exploit invece fu fatto con una roulotte al traino della nostra Mercedes in un tempo record: otto giorni. Naturalmente sempre d’inverno con neve, ghiaccio e temperature che superavano anche i –30. Ci successe, tra l’altro, durante l’andata di finire fuori strada per uno spostamento d’aria generato da un grosso TIR che ci aveva superato sulla strada ghiacciata: “Addio pensammo, qui ci vuole il disgelo prima di uscirne”. Poco dopo, fortuna nostra, arrivarono delle persone che mettendosi a ridere nel vederci con la macchina messa in bilico ed affondata nella neve. Ci fecero segno di spostarci: uno di loro si mette alla guida della Mercedes, ed in quattro e quattr’otto ci tirarono fuori”.
Alla termine della nostra conversazione mi è spontaneo chiedergli: “Dottor Livingstone? No – mi risponde – Franco Chierego”.